L’impunito
» Lino Jannuzzi
Mi spiace di dover dissentire nettamente dall’articolo di Vincenzo Vasile (“Iannuzzi Senatore domiciliare”), giornalista che solitamente apprezzo e stimo, non tanto in relazione al merito del provvedimento del Tribunale di Sorveglianza di Milano cui Vasile fa riferimento (fra l’altro, non ne conosco le motivazioni), quanto e soprattutto in rapporto a una serie di affermazioni che non mi sembrano condivisibili e spero siano frutto di insufficienti informazioni.
Parto da un’annotazione forse marginale: abbiamo sempre contestato i toni di chi parla con disprezzo di provvedimenti costituzionali, restando invece fermissimi sulla riaffermazione del diritto di critica, sacrosanto sempre, anche nei confronti delle sentenze. Non mi pare appartenere al nostro stile la qualificazione di un provvedimento giudiziario come “ridicolo e stupido”; non basterebbe definirlo “grave e pericoloso”, come fa Vasile in aggiunta ai due aggettivi precedenti? La differenza fra l’insulto e la critica è proprio resa palese dall’uso di queste espressioni. Ovviamente, non vedo alcun reato neanche nelle prime, ma mi sembra che esse non siano utili e non giovino all’esigenza che tutti sentiamo di ristabilire anche nel linguaggio alcune regole essenziali e imprescindibili.
Ma non è questo il punto fondamentale. A me sembra che ci sia un grosso equivoco tra termini assolutamente contrastanti come la manifestazione di un’opinione e la diffamazione: la prima è un diritto costituzionalmente garantito; la seconda è un reato, volto a proteggere altri diritti costituzionalmente garantiti, come l’onore, la reputazione e gli attributi fondamentali della personalità. Se non si parte da questo presupposto, si finisce per fare un’affermazione come quella che Iannuzzi pagherebbe, (secondo un’interpretazione del pensiero dei giudici) “non solo il fatto di avere un’opinione” ma anche l’aggravante di volerla mantenere, nonostante la durezza giudiziaria. Dunque, si chiede l’articolo, “non si piega alle intimidazioni?”. La diffamazione, ripeto, non è la manifestazione di un’opinione, ma è la lesione, penalmente rilevante, di un diritto costituzionalmente protetto. Una sentenza di condanna, passata in giudicato, dura o tenera che sia, non è e non può essere una “intimidazione”.
La verità è che, se non si fornisse un’adeguata protezione ai diritti alla personalità, si finirebbe in una giungla, in cui ciascuno può dire quello che vuole, accusando e diffamando ingiustamente altre persone, senza correre rischi di sorta, anzi restando libero di continuare pervicacemente a svolgere la sua azione diffamatoria. Non è così e non può essere così; tant’è che ben pochi – anche tra quelli che si adoperano per modificare (sarebbe meglio dire “aggiornare”) la disciplina della diffamazione – pensano di eliminarla del tutto. In tal caso, infatti chi e come tutelerebbe i diritti delle vittime, non meno fondamentali di altri diritti, come va ripetendo con forza non questo o quel giudice soltanto, ma la stessa Corte Europea dei diritti dell’uomo?
Qui sta l’errore, ribadito con l’affermazione che in fondo Iannuzzi “ha scritto quello che pensa”. Non esiste un problema di condivisione o meno del contenuto, perché il dibattito e il contrasto di opinioni sono il sale dei rapporti civili; ma occorre che si tratti, appunto, di opinioni, di argomentazioni, insomma di sviluppo di un pensiero, basato su fatti reali e non inventati o falsi.
A questi rilievi di principio, aggiungo che non mi sembra che vi sia una conoscenza precisa e completa dei fatti, compreso l’ultimo provvedimento, recentissimo, del Tribunale di Sorveglianza di Napoli del 10.6.2004 (pienamente accessibile perché pubblicato integralmente su una rivista). A prescindere dalle valutazioni conclusive circa le misure da applicare in concreto (ovviamente, discutibili e discusse), quel provvedimento riferisce non solo sui precedenti (condanne riportate nel 97 e nel 99, per reati commessi diversi anni prima), ma anche sulle pendenze dello stesso imputato, da cui risulta che dopo quelle condanne, passate in giudicato, ci sono state altre sentenze di condanna (impugnate) e due “patteggiamenti”, mentre sono tuttora pendenti numerosi procedimenti – sempre per diffamazione aggravata – davanti ai tribunali di Monza, Desio, Trento e così via.
Insomma, il Tribunale di Sorveglianza di Napoli parlava di un quadro significativo di processi per diffamazione relativo ad un arco temporale compreso tra la fine degli anni 90 e l’inizio del 2002; francamente, un curriculum che è assai diverso rispetto a quello della stragrande maggioranza dei giornalisti, che si limitano davvero a manifestare opinioni e anche a criticare, ma senza ledere la reputazione altrui. Ma ciò che poi dice quel provvedimento è assai lontano dalla prospettazione che ne fa l’articolo: il Tribunale, in sostanza, rileva che l’autore di quegli scritti continua a non attribuire agli stessi alcun profilo di illiceità; da ciò la reiterazione di alcune affermazioni false e diffamatorie nei confronti degli stessi soggetti. Davvero un rilievo di questo genere costituisce una intimidazione? Davvero, riteniamo “normale” che un giornalista, mentre è in corso un processo per diffamazione a suo carico e dopo una condanna, ripeta le stesse accuse di cui non è mai riuscito a fornire alcuna dimostrazione? Davvero è accettabile che, mentre è in corso un processo per diffamazione commessa con la pubblicazione di un libro, l’Autore ne faccia pubblicare un’altra edizione, in veste economica, aggiungendo un’introduzione che rincara la dose?
A mio giudizio, questo significa non tener conto né della legge (che dovrebbe essere uguale per tutti) né dei diritti fondamentali degli altri, con i quali occorre, necessariamente, contemperare i propri. Mi piacerebbe che un giornalista di sicura professionalità come Vasile convenisse con me sul fatto che l’insofferenza alle regole non solo contrasta con i fondamenti del vivere civile, ma mette in pericolo le stesse libertà individuali.
Un’annotazione conclusiva: una recente ricerca, effettuata per iniziativa dell’Ordine dei giornalisti della Lombardia, ha dimostrato che assai raramente, anche per i reati di diffamazione aggravata, viene irrogata la pena detentiva, ritenendosi preferibile – per la maggior parte dei Giudici – limitarsi alla pena pecuniaria. Risulta, altresì, ben difficile che lo stesso giornalista accumuli più condanne a pena detentiva; tant’è che dall’epoca di Guareschi non si parla più, almeno fino a questi giorni, del carcere per un giornalista. Se, allora, un giornalista subisce condanne passate in giudicato che – cumulate – conducono a un totale di due anni e cinque mesi, se allo stesso giornalista vengono comminate altre pene detentive con sentenze – sia pure non definitive – del Tribunale di Monza e di Desio, se a queste si aggiunge una recentissima e consistente condanna, sempre nei confronti dello stesso imputato, del Tribunale di Trento, sezione distaccata di Cles, questo dovrà pure avere un significato: dovendosi escludere una persecuzione ad hominem proveniente da giudici di parti così diverse del nostro Paese, bisognerà pur pensare che gli scritti di quel giornalista siano dotati di una carica di offensività ben superiore alla media e siano assai lontani rispetto all’attività usuale di tanti giornalisti (sono davvero la stragrande maggioranza) che svolgono la loro attività con sicura professionalità, ad alcuni dei quali sarà anche capitato di incappare nei “rigori” della giustizia, ma occasionalmente e senza mai correre alcun rischio serio (in genere chi paga sono gli editori) e tanto meno di veder mettere a repentaglio la propria libertà. Non nasce, da tutto questo, una bella lezione di giornalismo?
Carlo Smuraglia. L’Unità, 21 luglio 2004