“Aiutiamoli a casa loro”. Ma davvero: ecco chi lo fa
“Aiutiamoli a casa loro”. Era lo slogan della destra ed era una maniera soft per dire “Cacciamoli a casa loro”. Poi è diventato uno slogan anche di Matteo Renzi, per non farsi soffiare altri voti, con l’aria che tira. “Vorrei che ci liberassimo da una sorta di senso di colpa: noi non abbiamo il dovere morale di accogliere in Italia tutte le persone che stanno peggio. Se ciò avvenisse, sarebbe un disastro etico, politico, sociale e alla fine anche economico”. Avanti così. I due Matteo hanno trovato la convergenza su un unico slogan, in versione greve e spensierata quello di Salvini, in versione sofisticata e problematica quello di Renzi, che promette in più la liberazione da quella cosa fastidiosissima che è il senso di colpa dei ricchi di sinistra davanti al fallimento della sinistra che ha rinunciato non dico a eliminare, ma almeno a ridurre le disuguaglianze.
Ma quello che manca al programma “aiutiamoli a casa loro”, sia nella versione di destra sia in quella di sinistra, è l’aiuto a casa loro. Lo slogan serve per risolvere il problema a casa nostra (cioè smettiamola con l’accoglienza), mentre la seconda fase (cioè facciamo qualcosa di davvero utile nel mondo in sottosviluppo) come al solito non arriva mai. Al massimo ci mettiamo la coscienza a posto con un po’ di carità, un po’ di assistenza, un po’ di aiuti al Terzo Mondo che spesso aiutano più le aziende italiane che fanno da intermediari.
Mi ha colpito invece un’iniziativa promossa da un gruppo di preti e laici di Milano che, con sano pragmatismo ambrosiano, aiuta davvero “a casa loro” i poveri dell’Africa. Un’iniziativa limitata, che non cambierà il mondo, ma che almeno prova a combinare assistenza immediata e progetto di sviluppo. L’hanno chiamata “Aiutiamoli là”. Ma per davvero: hanno costruito a Kinshasa, nella Repubblica democratica del Congo, un centro per la formazione di giovani da mandare all’università; e una casa che accoglie i bambini di strada. Il primo si chiama Foyer Saint Paul e dà ospitalità a ottanta universitari; il secondo offre un tetto e una formazione a quaranta ragazzini senza famiglia. Il progetto è stato avviato nel settembre 2010, quando sono stati accolti i primi ragazzi, maschi e femmine, di etnie diverse, che provengono da tutte le zone del Congo, da villaggi lontani anche 3 mila chilometri. Ragazzi poveri o poverissimi, ma con voglia e capacità di studiare.
Il progetto punta su di loro per dare una speranza di futuro all’Africa, per costruire una classe dirigente che possa migliorare il loro Paese. Ai ragazzi viene data la possibilità di studiare, a scelta, in alcune facoltà universitarie: agronomia, diritto, economia, informatica, ingegneria, medicina, psicologia, comunicazioni sociali. Si va oltre l’assistenza, perché sfornare giovani laureati che s’impegnano a non scappare dall’Africa ma a lavorare per migliorare il loro Paese significa tentare – almeno tentare – di rendere un pezzetto di quel continente più capace di creare sviluppo. È stata festa grande quando il Foyer ha sfornato i primi nove laureati, tra cui due donne.
Poi, è inutile negarlo, un po’ di assistenza è necessaria: davanti alle migliaia di bambini piccoli e piccolissimi che vivono per strada, perché non hanno famiglia o perché sono stati abbandonati dalla loro famiglia, a Kinshasa è stata aperta, accanto al Foyer per gli universitari, anche la Benedicta, che aiuta, sfama, manda a scuola un gruppo di bambine e bambini che non avevano niente. “Aiutiamoli a casa loro”: ma davvero, dunque. Lo fa l’associazione “L’avete fatto a me”, con sede in via Copernico 1 a Milano, che raccoglie soldi per borse di studio con un conto corrente che è possibile trovare nel sito www.aiutiamolila.org.