Sesto, perché ha perso la sinistra dei “non-luoghi”
La sconfitta epocale del Pd di Matteo Renzi alle scorse elezioni amministrative ha una città simbolo: Sesto San Giovanni. Certo, Sesto è più piccola e politicamente meno “pesante”, per esempio, di Genova. Ma è simbolicamente pesantissima: è la “Stalingrado d’Italia”, medaglia d’oro della Resistenza, la città operaia che nel 1943 ha saputo ribellarsi ai fascisti e poi, dopo la liberazione, è stata ininterrottamente amministrata dalla sinistra, per 72 anni, fino a oggi. Che cosa è successo? A vincere è stato un giovane rampante del berlusconismo, Roberto Di Stefano: sostenuto da tutte le anime del centrodestra, dalla Lega ai centristi di Gianpaolo Caponi, ha seccamente battuto il sindaco uscente Monica Chittò.
Di Stefano non aveva un gran curriculum da esibire come amministratore, visto che (come ha rivelato il Fatto quotidiano) ha in corso una procedura della Corte dei conti che gli ha chiesto di restituire 62 mila euro incassati, contro la legge, come amministratore delegato della società pubblica La Fucina; e che il curatore fallimentare della stessa società, poi miseramente fallita, gli ha chiesto danni per 1 milione di euro (e speriamo che i magistrati penali non arrivino a contestargli anche reati). Ma questi argomenti non sono entrati in campagna elettorale se non nelle ultime ore, quando la partita era già persa. Anche perché il fallimento della Fucina è un fallimento bipartisan, dove il centrosinistra ha ben poco da rimproverare al centrodestra.
Il Pd ha spiegato la sconfitta dicendo che ha vinto la paura, visto che Di Stefano ha fatto campagna contro la moschea che dovrebbe sorgere a Sesto. È in parte vero. Ma non bisogna dimenticare che il centrosinistra non è riuscito a chiamare alle urne i suoi elettori: hanno votato soltanto 27.970 persone, con un astensionismo del 55 per cento. Più della metà dei cittadini è restata a casa, evidentemente poco affascinata dalle proposte del sindaco uscente. Vale poco dare la colpa alla paura e al razzismo strisciante – che pure ci sono, eccome – se la sinistra non sa unire all’ampliamento dei diritti (cittadinanza, unioni civili, riconoscimento dei gay, libertà di culto…) un programma sociale (welfare, lavoro, lotta alle diseguaglianze…).
Sesto era la città delle fabbriche e il Pci era il partito degli operai. Ora Sesto è una città terziarizzata e il Pd è il partito dei diritti civili, ma ha dimenticato la lotta per l’uguaglianza e i diritti sociali. Questo in tutto il Paese. A Sesto, poi, è il partito che ha gestito la Grande Trasformazione dalla città operaia alla città terziaria: sotto il segno del “penatismo”, quell’unione di politica e affari nata sotto la regia dell’ex sindaco Filippo Penati che ha costruito un blocco di potere e che ha dato vita alla Sesto dei “non-luoghi”, dei centri commerciali e dei cinema multisala e delle aree ex industriali che ancora aspettano una loro riconversione (che ne sarà della eternamente attesa Città della Salute?).
Domanda: in che cosa è diverso il nuovo panorama urbano di Sesto (e delle città governate dalla sinistra) da quello delle città amministrate dalla destra? Gli stessi “non-luoghi”, con le stesse indagini giudiziarie. Le grandi passioni e i grandi valori della resistenza antifascista e delle lotte operaie hanno lasciato il posto alla gestione mediocre di un potere che ha incrociato politica e affari, privilegi e faccendieri. Oggi assistiamo al fallimento della Grande Trasformazione, dopo Penati gestita dai penatiani dal volto umano, Giorgio Oldrini e Monica Chittò. A prevalere, alla fine, sono state la stanchezza e la delusione che hanno tenuto a casa tanti elettori. E la voglia di cambiamento di quelli che sono andati a votare, anche a costo che sia un cambiamento in peggio.