Gian Carlo Caselli: “Attaccano non chi fa reati, ma chi li scopre o li racconta”
Oggi si sente nell’aria un clima da Partito della Nazione: destra e sinistra insieme che attaccano Report, per aver fatto un’inchiesta sui presunti scambi tra Pd e gruppo Pessina (appalti Eni in cambio della gestione dell’Unità). E attacchi anche al Fatto quotidiano.
“Non so se si possa parlare di Partito della Nazione”, risponde Gian Carlo Caselli, per lunghi anni procuratore a Palermo e a Torino. “Certo è che va diffondendosi a destra come a sinistra, fra i partiti come fra i movimenti, la tendenza a valutare le inchieste giudiziarie e giornalistiche non con il metro della correttezza e del rigore, ma con quello dell’utilità: se l’inchiesta mi conviene, tutto ok, altrimenti fulmini e saette. In Italia per alcuni ambienti il vero peccato non è il male, ma scoprirlo o raccontarlo. Una certa politica, in particolare, per i suoi affari ama l’indulgenza compiacente e il silenzio. Le inchieste che riguardano il versante grigio, opaco, oscuro delle attività economiche e finanziarie, per un verso, e per l’altro legate alla politica, sono quelle che più danno fastidio e che espongono agli attacchi peggiori il magistrato o il giornalista scomodo che si ostina a farle”.
La Rai minaccia di togliere l’assistenza legale ai giornalisti che realizzano Report.
Chi si ritiene diffamato ha diritto di tutelarsi in sede giudiziaria con una querela. Poi si vedrà se fondata o no. Ma una cosa che secondo me non si può fare è minacciare o, peggio ancora, darsi da fare per ridurre o cancellare l’assistenza legale, come ritorsione per una certa inchiesta. Perché in questo modo i diritti di autonomia e libertà, che sono i motori della buona informazione, rischiano di essere stritolati da condizionamenti che assomigliano alle censure.
Attacchi anche a magistrati come Henry John Woodcock, considerato quasi l’ispiratore di un complotto contro la famiglia dell’ex presidente del Consiglio Matteo Renzi.
Senza voler entrare nel merito dell’inchiesta – se non altro perché Woodcock è un mio amico –, certi attacchi alla magistratura ancora oggi mi fanno venire in mente quello che Sebastiano Vassalli ha scritto nel suo libro L’italiano a proposito di Francesco Crispi. Secondo Vassalli, nel giudice che lo interrogava sullo scandalo del Banco di Napoli, Crispi vedeva un “ometto sussiegoso” che pretendeva di aver conto di ogni singola operazione di banca e di ogni prestanome. Secondo Crispi, quel giudice era soltanto “un cretino”, perché pensava che la politica di una nazione potesse farsi senza quattrini e senza infamia, soltanto con l’onestà. Ho l’impressione che ancora oggi la “filosofia” di Crispi si riaffacci a volte sulla scena.
Un tempo, quando l’allora direttore generale della Rai Mauro Masi minacciò di togliere l’assistenza legale a Milena Gabanelli per Report, ci fu un’ampia solidarietà alla giornalista in nome della libertà di stampa. Oggi invece quasi nessuno fiata…
I giornalisti che si ostinano a fare il proprio lavoro con rigore e coerenza – e senza piaggeria penso a Report e al Fatto quotidiano – sempre più spesso finiscono per essere considerati anche da certi colleghi come un gruppetto di alieni, di marziani. A volte non si riflette abbastanza sull’importanza della parola e sull’amore per la verità, antidoti contro l’informazione complice, pilotata. In ogni caso strumenti necessari perché il nostro Paese recuperi un posto più lusinghiero nella classifica mondiale della libertà d’informazione.
Poco sostegno oggi anche a Nino Di Matteo…
Qui siamo al surreale, per usare un eufemismo. Trasferimento deciso, Di Matteo generosamente disposto ad assumere le nuove funzioni pur con un’applicazione che gli consenta di continuare a seguire il processo sulla cosiddetta trattativa. E invece niente. In barba a esigenze di sicurezza comprovate e gravi.
Chi racconta le indagini viene invitato ad aspettare le sentenze, poi quando arrivano le sentenze (vedi il caso Minzolini) non sono tenute in alcun conto…
Torniamo al discorso dei provvedimenti giudiziari che vanno bene se sono ritenuti utili a una certa causa, altrimenti vengono attaccati o calpestati. È come ridurre la legalità a un paio di ciabatte da indossare solo quando fa comodo.
Lei il clima di oggi lo ha già sperimentato a Palermo, quando subì attacchi da destra e da sinistra, ai tempi del processo a Giulio Andreotti…
Durante i quasi sette anni in cui ho diretto la Procura di Palermo (1993-1999) il nostro lavoro ha contribuito a salvare la democrazia italiana. Non ho mai preteso di essere pensato come avvolto in una bandiera tricolore. Sarebbe ridicolo. Ma mi sarei aspettato almeno un diffuso rispetto per il nostro lavoro. E invece siamo stati al centro di una vera e propria guerra: non contro la mafia, ma contro la Procura di Palermo. Una guerra totale condotta con tattiche diverse, ma tutte ispirate all’obiettivo di restringere i nostri spazi operativi e circoscrivere il rischio che potessimo scoprire verità sgradevoli, tipo quelle emerse con le inchieste su Giulio Andreotti e su Marcello Dell’Utri. Per resistere agli attacchi scatenati contro di noi abbiamo dovuto mostrare una schiena ben diritta e robusta.