Martini, il cardinale che continua a parlare ai milanesi
Milano non ha dimenticato il suo cardinale arcivescovo. Carlo Maria Martini, scomparso nel 2012, quest’anno avrebbe compiuto 90 anni. Nelle ultime settimane è stato ricordato da giornali e tv, con articoli, eventi, concerti, reading, mostre, libri, perfino un bellissimo film di Ermanno Olmi, Vedete, sono uno di voi. Il rischio delle celebrazioni è quello di trasformare il celebrato, più che in un santo, in un santino, applaudito da tutti e criticato da nessuno. Martini, biblista e pastore, arcivescovo di Milano dal 1979 al 2002, non era così.
La sua forza era quella di costringere tutti i suoi interlocutori, cristiani o laici, a riflettere e a mettersi in gioco. Da morto, Martini sembra piacere a tutti. Eppure, da vivo, molti, fuori e dentro la Chiesa, si consideravano suoi nemici dichiarati. Per diradare le nebbie dell’ipocrisia, il Fatto quotidiano ricorda alcuni passaggi della sua vita e del suo magistero, ricostruendo una immagine del cardinale certo parziale, ma senz’altro fedele.
La Democrazia cristiana, il “fico sterile”
Era il 1991 quando la Democrazia cristiana, che era ancora il perno della Prima Repubblica, decise di celebrare a Milano una sua conferenza organizzativa che voleva rilanciare il partito e tentare di salvarlo dalla crisi che già si avvertiva. I leader dc, con in testa Arnaldo Forlani e Amintore Fanfani, andarono in quell’occasione a far visita all’arcivescovo. Martini, che di solito non riceveva politici, li accolse il 27 novembre 1991 in arcivescovado. Li ascoltò in silenzio, e poi citò un brano evangelico di Luca, la parabola del “fico sterile”: “Un tale aveva piantato un albero di fichi nella sua vigna e venne a cercarvi frutti, ma non ne trovò. Allora disse al vignaiolo: ‘Ecco, sono tre anni che vengo a cercare frutti su quest’albero, ma non ne trovo. Taglialo dunque! Perché deve sfruttare il terreno?’. Ma quello gli rispose: ‘Padrone, lascialo ancora quest’anno, finché gli avrò zappato attorno e avrò messo il concime. Vedremo se porterà frutti per l’avvenire; se no, lo taglierai’ ”.
Era un ultimatum alla Dc e alla politica. Nella sala scese il gelo. Un testimone racconta che Forlani e gli altri si guardavano sgomenti. L’ultimatum non fu raccolto, o forse era troppo tardi: tre mesi dopo, nel febbraio 1992, iniziò l’inchiesta su Tangentopoli che avviò l’implosione del sistema dei partiti. Nella Milano di Mani pulite, Martini restò l’unica autorità morale riconosciuta in città. Quanto alla Dc fico sterile, tu “tagliata” nel 1993.
Silvio Berlusconi, “C’è un tempo per parlare”
Nel 1995, arriva Silvio Berlusconi a occupare la scena politica italiana. Per il tradizionale “discorso alla città”, in occasione della festa di Sant’Ambrogio patrono di Milano, Martini sceglie come tema una frase di Qohelet: “C’è un tempo per tacere e un tempo per parlare”. Contro “l’afasia della Chiesa, quasi che non sapesse più bene che cosa dire”, il cardinale afferma che la Chiesa deve dire chiaramente su cosa deve parlare e su cosa deve tacere. “Non deve coinvolgersi con alcuna scelta di schieramento politico o di partito”, “lasciando ai laici cristiani di esprimersi secondo la loro coscienza e competenza. Tuttavia la Chiesa non deve solo tacere, ma deve anche parlare”: “sui principi etici che reggono le scelte politiche”. Perché “non è la Chiesa a essere in pericolo; è la natura stessa della politica e quindi della democrazia e, in ultima analisi, del costume sociale che sta alla base della democrazia”.
Martini fa esempi concreti di fenomeni su cui non si può tacere: 1. Un “atteggiamento che contesta la funzione dello Stato nella tutela dei più deboli e alla fine mette a rischio lo stesso patto sociale che sottostà alla Costituzione, a vantaggio di assetti contrattuali più facili a piegarsi alle convenienze e alle maggioranze del momento”. 2. Una “logica decisionistica che non rispetta le esigenze di una paziente maturazione del consenso o che cerca di estorcerlo con il plebiscito generalizzato o si illude di operare col sondaggio dei desideri, semplificando la complessità della politica, dei suoi tempi e delle sue mediazioni”. 3. Il “liberismo utilitaristico che non mette ordine nelle attese e nei bisogni secondo una gerarchia di valori, ma eleva il profitto e l’efficienza o la competitività a fine, subordinando a essa le ragioni della solidarietà”. 4. La “politica fatta spettacolo, scontro verbale accompagnato anche da minacce; una politica intesa come luogo del successo e palcoscenico di personaggi vincenti, che richiedono deleghe a governare non sulla base di programmi vagliati e credibili, bensì sulla base di promesse o prospettive generiche”.
Come non leggere in questi punti una critica a Berlusconi e al berlusconismo? Conclude Martini: “Non è dunque questo un tempo di indifferenza, di silenzio, e neppure di distaccata neutralità o di tranquilla equidistanza. Non basta dire che non si è né l’uno né l’altro, per essere a posto; non è lecito pensare di poter scegliere indifferentemente, al momento opportuno, l’uno o l’altro a seconda dei vantaggi che vengono offerti. È questo un tempo in cui occorre aiutare a discernere la qualità morale insita non solo nelle singole scelte politiche, bensì anche nel modo generale di farle e nella concezione dell’agire politico che esse implicano. Non è in gioco la libertà della Chiesa, è in gioco la libertà dell’uomo; non è in gioco il futuro della Chiesa, è in gioco il futuro della democrazia”.
I non credenti in cattedra
Martini è il vescovo della crisi delle grandi fabbriche milanesi. Dell’uscita dagli Anni di piombo: è a lui alcuni terroristi consegnano le armi. È il vescovo delle visite al carcere di San Vittore. È il pastore della “cattedra dei non credenti”, istituita per “mettere in cattedra anche i non credenti e imparare ad ascoltarli”: da Massimo Cacciari a Gustavo Zagrebelsky, da Paolo De Benedetti a Stefano Levi Della Torre. “Questi incontri mi hanno aiutato ad allargare la mente e a saper ascoltare senza pregiudizi gli argomenti di ciascuno”.
Martini ha idee radicali sulla povertà: “Forse sarà necessario attendere una invasione di persone venute da altre civiltà, che distruggano e in qualche modo facciano tabula rasa di tutto il nostro modo di vita”. Accogliente nei confronti di separati e divorziati: “Vale il principio che il matrimonio è unico e indissolubile. Ma trovandosi di fronte a naufraghi, è necessario fare il possibile perché essi non anneghino”. E degli omosessuali: “Nel concreto con la singola persona bisognerà saper ascoltare e comprendere bene la situazione”.
Il patto con il cardinale Joseph Ratzinger
Padre Silvano Fausti, biblista e teologo, gesuita come Martini, era il suo confessore e guida spirituale, l’uomo più vicino al cardinale, il custode dei suoi segreti. È stato Fausti a raccontare i rapporti tra Carlo Maria Martini e Joseph Ratzinger. I due sono si sono fronteggiati per diventare papa, nel Conclave 2005. Il primo era sostenuto dal fronte dei cardinali che potremmo chiamare “progressista”, il secondo da quello “conservatore”. “Erano i due che avevano più voti”, racconta Fausti, “e Martini un po’ di più”. Nessuno dei due riesce però a prevalere sull’altro. Prende allora il via, continua Fausti, una manovra per “far cadere ambedue”: “giochi sporchi” per eliminarli entrambi ed eleggere papa “uno di Curia, molto strisciante”.
“Scoperto il trucco, Martini è andato la sera da Ratzinger e gli ha detto: accetta domani di diventare papa con i miei voti, accetta tu che sei in Curia da trent’anni e sei intelligente e onesto. Se riesci a riformare la Curia, bene, se no te ne vai”. Così avviene: Ratzinger diventa papa Benedetto XVI e prova a riformare la Curia romana. Fa subito un discorso, riferisce Fausti, “che denunciava queste manovre sporche e ha fatto arrossire molti cardinali”. E nell’omelia di inizio pontificato, il 24 aprile 2005, dice: “Pregate per me, perché io non fugga, per paura, davanti ai lupi”. Padre Fausti ricorda anche il gesto fatto da Ratzinger il 28 aprile 2009, nell’Aquila devastata dal terremoto: avrebbe dovuto fare solo una sosta davanti alla basilica di Collemaggio; invece Benedetto XVI varca la porta santa della basilica pericolante, tra il panico della scorta e dei presenti, e va a deporre il suo pallio papale sulla teca di Celestino V, il papa del “gran rifiuto”.
“Cercavano sempre di metterli uno contro l’altro per fare notizia”, prosegue Fausti, invece Martini e Ratzinger, così diversi, si riconoscevano e si stimavano. Il papa affronta attacchi interni, scontri di Curia, veleni, fino a Vatileaks. L’ultimo abbraccio tra i due è il 2 giugno 2012, quando papa Ratzinger viene a Milano per l’Incontro mondiale delle famiglie. Martini, già da tempo malato, ormai quasi senza voce, vede il papa in una saletta dell’arcivescovado e gli sussurra: “È proprio ora”, racconta padre Fausti, “qui non si riesce a fare nulla”. La Curia non si riforma, non ti resta che lasciare.
Benedetto XVI era tornato sfinito da un viaggio a Cuba, a fine marzo. In estate comincia a parlare delle dimissioni con i suoi collaboratori più stretti, che tentano di dissuaderlo. A dicembre convoca il Concistoro in cui crea sei cardinali – neppure uno europeo – per “riequilibrare” il Collegio cardinalizio che elegge il papa. Martini intanto era morto, il 31 agosto 2012. L’11 febbraio 2013, Ratzinger mantiene l’impegno preso con Martini in Conclave e comunica la sua rinuncia al pontificato. Un mese dopo, l’elezione di Jorge Mario Bergoglio. Padre Fausti conclude: “Quando ho visto Francesco vescovo di Roma ho cantato il Nunc dimittis, finalmente! Ho aspettato dai tempi di Gregorio Magno un Papa così…”.
Come si sceglie un vescovo
Nel suo ultimo libro, Il vescovo edito da Rosenberg & Sellier, Martini spiega che cos’è il vescovo non solo dal punto di vista teologico ed ecclesiale, ma anche concreto. Ha lasciato la guida della diocesi più grande del mondo nel 2002, ritirandosi prima a Gerusalemme e poi, malato, a Gallarate. Il libro esce nel 2011, l’anno in cui nella diocesi più grande del mondo avviene il cambio della guardia: se ne va il cardinale Dionigi Tettamanzi, che aveva guidato Milano in continuità con Martini, e il papa deve scegliere il successore.
Nel capitolo “Come si diventa vescovi?”, Martini scrive: “Si trovavano in passato, e oggi ancora si trovano, nei seminari e anche in altri settori della diocesi, persone di cui si diceva: ‘Studiano da vescovi’. Si tratta di giovani un po’ ambiziosi, che non perdono occasione per farsi notare sia dai Superiori locali come da quelli di Roma. Di fatto, anche per pacificare il loro animo, giunti alla meta desiderata essi coprono con gesti di oblio ogni cosa fatta per raggiungere il traguardo”.
È un’altra la figura di vescovo che Martini ha in mente. Uomo di preghiera e di studio. Ma “un vescovo deve saper essere creativo e anche audace”. Tanto che come motto vescovile sceglie una frase di san Gregorio Magno: “Pro veritate adversa diligere”. “Per la verità, amare le avversità”, ossia essere anche disposti ad affrontare le situazioni sfavorevoli. “Mi è stata utile in tante circostanze”, scrive Martini, “quando sentivo che si addensava una certa critica attorno ad alcune delle mie scelte pastorali e mi sembrava giusto non arrendermi”. Sa che il Vangelo è anche spada che taglia, profezia che scuote.
Nel libro tratta anche il nodo della successione. “Quando si è trattato di nominare il mio successore”, scrive Martini, “ho convocato il consiglio pastorale e presbiteriale in seduta comune perché discutessero, in mia assenza, sulle doti che doveva avere il nuovo vescovo. Questo testo è stato presentato alla Congregazione dei vescovi e avrebbe potuto essere di qualche utilità per la scelta del candidato”. Venne scelto Tettamanzi, che aveva avversato la audace riforma dei seminari voluta da Martini e che aveva il mandato di “demartinizzare” Milano. Ma quando arrivò al vertice della diocesi, cambiò rotta e la guidò in continuità con il magistero di Martini, pur senza avere il suo carisma. La discontinuità fu netta dopo Tettamanzi, quando il papa Benedetto XIV scelse, in rottura con la tradizione ambrosiana, Angelo Scola, che veniva da Cl e che il predecessore di Martini, Giovanni Colombo, non aveva voluto neppure ordinare prete.
Prevalsero altri percorsi, pesò la lettera mandata al papa da Julián Carrón, il capo di Comunione e liberazione, che propone il nome di Scola dopo aver duramente criticato, pur senza citarli, Martini e Tettamanzi, accusati di “intimismo e moralismo”, di “un sottile ma sistematico collateralismo verso una sola parte politica, il centrosinistra, trascurando, se non avversando, i tentativi di cattolici impegnati in politica, anche con altissime responsabilità nel governo locale” (l’accenno è al ciellino Roberto Formigoni allora presidente della Regione) e rimproverandoli di aver bollato “come affarismo le opere educative, sociali e caritatevoli dei movimenti, che vengono considerati sempre più come un problema che come una risorsa” (le “opere” dei “movimenti” sono naturalmente quelle di Cl). “Data la gravità della situazione”, conclude Carrón, a Milano c’è bisogno di “un pastore che sappia rinsaldare i legami con Roma e con Pietro. Per queste ragioni l’unica candidatura che mi sento in coscienza di presentare all’attenzione del Santo Padre è quella dell’attuale Patriarca di Venezia, Cardinale Angelo Scola”.
Ratzinger il 28 giugno 2011 nomina Scola, con grande smarrimento della Chiesa ambrosiana, “martiniana” fin nel midollo. Ma quando avviene, Carlo Maria Martini è ormai silenzioso. Nella sua ultima intervista, rilasciata l’8 agosto 2012 e pubblicata sul Corriere il giorno dopo la sua morte, tocca temi sensibili come il sesso, l’indissolubilità del matrimonio, lo scandalo della pedofilia: “La Chiesa è stanca, nell’Europa del benessere e in America”. “La Chiesa è rimasta indietro di 200 anni. Come mai non si scuote? Abbiamo paura? Paura invece di coraggio?”. Il 31 agosto 2012, dopo aver rifiutato di sottoporsi all’alimentazione forzata attraverso un sondino, il cardinale dei milanesi chiude gli occhi per sempre.