Il calendario segnava 22 ottobre, ma è stato l’8 settembre del Comune di Milano: sulla annosa vicenda dello stadio di San Siro. Quel giorno il sindaco che per cinque anni ha condotto a Milano una gestione personalistica, pasticciata e inconcludente del caso stadio ha dovuto subire l’umiliazione di una riunione a Roma, dentro una stanza del governo di destra, che ha deciso di tirare i fili che Giuseppe Sala per cinque anni aveva ingarbugliato.
La riunione si è tenuta al ministero della Cultura, presenti, oltre a Sala, i rappresentanti delle proprietà dei club ovvero i fondi esteri Oaktree Capital e Redbird Capital Partners, la soprintendente alle Belle arti Emanuela Carpani, il ministro della Cultura Alessandro Giuli e quello dello Sport Andrea Abodi. Sì, un 8 settembre del sindaco di Milano sullo stadio: si fa quello che i club vogliono e il governo di destra benedice.
Uno: abbattimento del Meazza, ma parziale, con una non meglio specificata “rifunzionalizzazione” di quel che ne resterà (cioè la sua morte). Due: costruzione di un nuovo impianto, necessario non allo sport, ma alla finanza dei fondi americani. Tre: “sviluppo delle aree circostanti”, cioè altro cemento, con un bel grattacielo a uffici con cui le squadre si pagano l’arena nuova, con altro consumo di suolo che si somma ai 50 mila metri quadri del Parco dei Capitani che sarà distrutto per costruire il nuovo stadio, attaccato al Meazza ormai trasformato in “vestigia” e venduto a Milan e Inter. Conclusione in gloria: “Da parte di tutti gli interlocutori c’è stato apprezzamento e soddisfazione”, così si legge nella nota del Comune con toni da Agenzia Stefani.
Il bluff delle squadre è riuscito. Minacciavano di andare via da Milano per impietosire il sindaco e convincerlo a lasciar fare a Milan e Inter l’affare immobiliare a San Siro, dopo aver abbattuto il Meazza. Ora con l’aiutino del governo di destra hanno raggiunto l’obiettivo, dopo cinque anni di gioco a poker in cui il sindaco non ha mai chiesto di vedere le carte e smascherare il bluff.
Per anni aveva accettato il progetto delle squadre, buttar giù “la Scala del calcio” (di proprietà del Comune) per costruire la nuova arena e soprattutto grattacielo e megacentro commerciale (su terreni del Comune).
Poi è arrivata la Soprintendenza a dire quel che tutti sapevano, e cioè che nel 2025 il secondo anello del Meazza compirà settant’anni e dunque scatterà il vincolo di legge che impedisce l’abbattimento dell’impianto. A questo punto il sindaco, invece di lanciare subito una gara internazionale per la ristrutturazione del Meazza, ha fatto suo il progetto di recupero di Webuild.
Ma le due squadre vogliono lo stadio nuovo. Ed ecco il miracolo. Un anno dopo aver detto che non si poteva abbattere il Meazza, la Soprintendenza dice che invece, nella sostanza, si può fare: miracoli della destra al governo. E a Roma si sigla l’accordo, con “apprezzamento e soddisfazione da parte di tutti gli interlocutori”.
Evviva. Ha perso Milano, hanno vinto i manager dei due club. Il perché sta scritto in un dossier riservato della società di consulenza Washington Harbour: chi investe oggi 150 milioni in Redbird, potrebbe rivendere nel 2027 la sua quota incassando 390 milioni. Grazie al progetto di nuovo stadio con grattacielo annesso.
E i manager del Milan (da Gerry Cardinale al presidente Paolo Scaroni fino all’amministratore delegato Giorgio Furlani) intascheranno 569 milioni di incentivi (Mip, Management Incentive Plans) nel migliore scenario di sviluppo possibile; 358 milioni nello scenario base; zero euro se lo stadio non sarà realizzato. Sono 569 (o almeno 358) milioni di buoni motivi per spingere Cardinale, Scaroni e Furlani a fare il nuovo stadio a ogni costo; e a convincere tutti (dalla sovrintendente al sindaco) che sia una ottima idea.