GIUSTIZIA

Processo al processo. Eni, la Procura di Milano e il “fuoco amico”

Processo al processo. Eni, la Procura di Milano e il “fuoco amico” Un’udienza del processo Eni-Nigeria a Milano

Pubblicato il 24 settembre 2024 su MicroMega www.micromega.net 

 

C’è un’aula di giustizia in cui si sta celebrando il processo a un processo. L’aula è la numero 25 del tribunale di Brescia. Il processo sotto processo è quello a Eni e ai suoi manager, che (insieme a Shell) furono accusati di corruzione internazionale per una tangente record di oltre un miliardo di dollari per ottenere la concessione di Opl 245, un grande campo petrolifero in Nigeria. Quel processo, malgrado indizi pesanti (500 milioni di dollari arrivati da un conto Eni dispersi in Nigeria in contanti) finì con piene assoluzioni. Ora sul banco degli imputati sono invece i due pm che avevano sostenuto l’accusa: l’allora procuratore aggiunto Fabio De Pasquale e il sostituto procuratore Sergio Spadaro, oggi alla Procura europea. Per loro i pm di Brescia hanno chiesto una condanna a 8 mesi, e senza sospensione condizionale della pena. La sentenza è attesa per l’8 ottobre.

I due magistrati sono accusati di non aver depositato nel processo milanese elementi che potevano essere favorevoli agli imputati. Per la precisione, “elementi utili e pertinenti per la valutazione dell’attendibilità del dichiarante”, cioè l’ex manager Eni Vincenzo Armanna, un imputato diventato accusatore di Eni. Eccoli: 1. Alcuni messaggi Whatsapp del 2019 da cui si deduceva che Armanna aveva pagato 50 mila dollari a due cittadini nigeriani testimoni del processo Eni-Nigeria e ne voleva la restituzione dopo che questi non avevano confermato, in aula a Milano, le sue dichiarazioni (e cioè di aver visto “gli italiani” imbarcare trolley pieni di denaro, parte della tangente retrocessa a uomini Eni); 2. Una chat di Telegram che, presentata da Armanna per giustificare la mancata comparizione di un teste al processo Eni-Nigeria, potrebbe essere stata manipolata; 3. Messaggi Whatsapp in cui Armanna suggeriva a un testimone nigeriano di confermare che un manager Eni di vertice, Claudio Granata, aveva fatto pressioni su Armanna, per conto dell’amministratore delegato Claudio Descalzi, al fine di fargli ritrattare le accuse a Eni; 4. Note della società Vodafone secondo cui non erano in uso a Descalzi e Granata, nel 2013, le utenze telefoniche su cui avvengono alcune chat tra Armanna e Granata e Armanna e Descalzi. Alcune di queste erano state presentate da Armanna ai pm milanesi.

A queste quattro “prove sottratte” se ne aggiunge una quinta. Un video in cui Armanna nel luglio 2014 mostrava propositi ritorsivi nei confronti di alcuni funzionari Eni (“Perché la valanga di merda che io faccio arrivare in questo momento…”), dimostrando la sua volontà di calunniare falsamente la compagnia e i suoi manager di vertice. Il video, registrato di nascosto dall’imprenditore Ezio Bigotti, non era nella disponibilità di De Pasquale e Spadaro, ma dei loro colleghi, Laura Pedio e Paolo Storari, titolari di un altro fascicolo d’inchiesta (Eni-complotto). Dopo le richieste delle difese Eni, Pasquale e Spadaro l’hanno chiesto a Pedio e Storari e l’hanno depositato nel processo. Non mancando di sottolineare che il video mostrava un lungo confronto tra molte persone su disparati argomenti, in cui Armanna esprimeva sì rudemente la sua volontà di seppellire i vertici Eni sotto “una valanga di merda”, ma con due interpretazioni possibili: la “valanga” poteva essere formata da falsità, oppure, ancor più efficacemente, da accuse vere. Uno dei partecipanti all’incontro, Paolo Quinto, interrogato da Storari, dichiara infatti: “Armanna diceva che lui era stato tirato in mezzo nella vicenda Olp 245… Disse che avrebbe attivato i giornali e che avrebbe raccontato la verità anche ai magistrati”.

Poco dopo quel video, il 28 luglio 2014 Armanna va effettivamente in Procura e comincia ad accusare i manager della compagnia petrolifera (da cui era stato licenziato), diventando un testimone a favore dell’accusa. Il video però non prova se la vendetta è attuata con calunnie (come dicono le difese Eni) o con affermazioni vere (come sostengono i pm d’accusa).

E le altre quattro contestazioni mosse a De Pasquale e Spadaro? La pubblica accusa ha per legge il dovere di cercare durante le indagini anche gli elementi di prova favorevoli agli indagati. De Pasquale e Spadaro, impegnati come pm nel processo Eni-Nigeria, sono sotto giudizio a Brescia nell’ipotesi che non abbiano voluto depositare quei cinque sopra elencati documenti, che si asserisce siano favorevoli alla compagnia petrolifera. Il reato contestato è rifiuto di atti d’ufficio (articolo 328 del codice penale), che prevede una pena da 6 mesi a 2 anni di reclusione.

A parte il video, quei documenti erano stati individuati da un collega di De Pasquale e Spadaro, il pm Storari, che indagando su vicende parallele a quella di Eni-Nigeria (Eni-complotto) si era convinto che Armanna fosse un testimone falso. Ha così raccolto elementi che a suo giudizio lo dimostrano: i messaggi sui soldi ai testimoni nigeriani, le chat che ritiene manipolate, la nota di Vodafone. Li ha mandati informalmente all’allora capo della Procura, Francesco Greco, che li ha a sua volta passati a De Pasquale e Spadaro. Erano bozze informali, spunti eventualmente da approfondire in indagini successive, dubbi maturati dentro un’altra indagine (Eni-complotto), diversa da Eni-Nigeria, già a processo, anzi ormai alla vigilia della sentenza di primo grado. Così i due pm hanno deciso di non portare davanti al giudice quegli elementi che ritenevano ancora informi e non rilevanti. Non la pensa così Storari, che accusa i colleghi di averlo fatto per non far perdere credibilità al testimone Armanna, allora utile a sostenere le tesi dell’accusa.

 

Per capire come si è potuti arrivare a questo punto di scontro interno, mai visto prima nella Procura di Mani pulite, è necessario ricordare che a Milano, negli anni tra il 2014 e il 2021, si è andata addensando una situazione eccezionale, si è verificato un maligno allineamento dei pianeti, si è condensata una inedita perturbazione giudiziaria. Tutto ruota attorno a una delle aziende più importanti e potenti del Paese: Eni. La Procura di Milano avvia indagini e processi su presunte corruzioni internazionali che la compagnia avrebbe attuato in Algeria, in Nigeria, in Congo; su un ipotizzato conflitto d’interessi tra l’amministratore delegato Eni, Descalzi, e sua moglie che, secondo la Procura, aveva fatto affari con Eni in Africa per oltre 300 milioni di dollari. In più, era approdata a Milano una intricata indagine sul cosiddetto “complotto Eni”, che passa dalla Procura di Trani a quella di Siracusa e arriva infine a Milano.

Dapprima appare come un “complotto” contro Descalzi architettato da manager Eni (Umberto Vergine, Pietro Varone) e da membri del cda (Luigi Zingales, Karina Litvack). Del tutto incolpevoli: non registi, ma semmai vittime del “complotto”, architettato invece da un avvocato esterno dell’Eni, Piero Amara, allo scopo finale di intorbidare e sabotare proprio le indagini della Procura milanese sugli affari di Eni in Algeria, in Nigeria e in Congo e per “salvare”, dunque, l’allora amministratore delegato di Eni, Descalzi, il suo predecessore, Paolo Scaroni, e il suo amico Luigi Bisignani, ex piduista, tra i mediatori dell’affare in Nigeria. Amara e Armanna escono allo scoperto e sostengono di aver ricevuto dai vertici Eni il mandato di tessere il “complotto”. La compagnia sostiene invece di esserne semmai vittima e oggetto delle calunnie del suo ex avvocato Amara e del suo ex manager Armanna.

Non basta. Nel 2020 scoppia un altro caso, ancor più clamoroso, che s’intreccia pericolosamente con quelli fin qui citati. L’avvocato Amara, riccamente remunerato per anni da Eni per i suoi servizi professionali, dopo l’incriminazione per alcuni reati, era diventato un accusatore di Eni nel procedimento “complotto”. Ma ci aggiunge anche un carico da novanta: rivela ai pm dell’inchiesta “complotto”, Paolo Storari e la procuratrice aggiunta Laura Pedio, l’esistenza di una fantomatica “Loggia Ungheria”, un’organizzazione massonica segreta con affiliati politici, magistrati, funzionari dello Stato, imprenditori, avvocati, banchieri, monsignori vaticani, generali dei carabinieri e della Guardia di finanza.

A questo punto Storari, già in disaccordo con i colleghi sul ruolo di Armanna, ritiene che la Procura sia troppo lenta e inerte sulla “Loggia Ungheria” e chiede aiuto a Piercamillo Davigo, in quel momento componente del Consiglio superiore della magistratura. Gli passa copia dei verbali segreti di Amara. Davigo informa della vicenda i vertici del Csm, ne parla con l’allora procuratore generale della Cassazione Giovanni Salvi, il presidente della Suprema corte Pietro Curzio, il vicepresidente del Csm David Ermini, alcuni consiglieri (Giuseppe Marra, Giuseppe Cascini, Ilaria Pepe, Fulvio Gigliotti e Stefano Cavanna), le sue due segretarie al Consiglio (Marcella Contrafatto e Giulia Befera) e l’allora presidente della Commissione parlamentare antimafia (il senatore Nicola Morra: per spiegargli come mai abbia rotto i rapporti con un magistrato che gli era amico, Sebastiano Ardita, che secondo Amara farebbe parte della “loggia Ungheria”, insieme a un altro consigliere del Csm, Marco Mancinetti).

Ecco perché – spiega Davigo – “non ho violato alcun segreto: ho informato persone tutte tenute al segreto”. E lo ha fatto – dice – in maniera informale perché una denuncia formale avrebbe fatto conoscere i contenuti dei verbali segreti anche ai due componenti del Consiglio indicati (falsamente, ma questo si saprà solo in seguito) da Amara come appartenenti alla loggia Ungheria: “So di aver fatto il mio dovere nelle uniche forme consentite dalla particolarità della situazione”.

Lo scandalo scoppia quando questa storia, per mesi sotterranea, viene alla luce. I verbali segreti passati da Storari a Davigo arrivano, mandati da un anonimo, a due giornali, il Fatto quotidiano e la Repubblica, e poi al magistrato Nino Di Matteo che ne parla in una seduta pubblica del Csm. Seguono processi per rivelazione di segreto a Storari (assolto) e a Davigo (condannato). E si apre una profonda frattura dentro la Procura di Milano, che si spacca tra chi difende il comportamento di Storari e chi lo critica.

Poi il caso “Loggia Ungheria”, passato dalla Procura di Milano a quella di Perugia, viene chiuso dal gip con un’archiviazione in cui si sostiene che la loggia, come raccontata dall’avvocato Amara, non esiste: esistono “serie di iniziative individuali” e “condotte di mera pressione o di influenza poste in essere di volta in volta da singoli soggetti per conseguire finalità esclusivamente personali (e non comuni dell’associazione)”. Insomma non esiste la loggia massonica segreta e strutturata che Amara aveva descritto come una sorta di continuazione della P2; ciò che è esistito è un’attività lobbistica e di relazioni per indirizzare nomine, costruire carriere, favorire affari. Amara viene allora denunciato per calunnia da molti dei personaggi che aveva indicato come iscritti dalla loggia (tra cui Ardita e Mancinetti).

Intanto il processo Eni-Nigeria, attorno a cui tutto ruota come i pianeti ruotano attorno al sole, si conclude il 17 marzo 2021 con una totale assoluzione per tutti gli imputati. De Pasquale e Spadaro sperano che le ragioni dell’accusa possano essere accolte in appello: ma la Procura generale di Milano, con decisione più unica che rara, decide di non celebrare il processo. “Mai vista una cosa simile in 30 anni di lavoro”, ha commentato l’avvocato Lucio Lucia, rappresentante di parte civile dello Stato della Nigeria. Il caso è chiuso, con una pietra tombale calata sull’affare petrolifero del secolo, quello per acquisire il campo d’esplorazione Opl 245. Un affare nato nel 2010 già in maniera anomala: non da valutazioni aziendali o da scelte professionali, ma da un amichevole suggerimento su un buon business per Eni lanciato da Bisignani, piduista con grande fiuto per gli affari, all’amico Scaroni, allora al vertice della compagnia petrolifera. Dopo il ritiro della Procura generale, l’assoluzione diventa definitiva. La verità giudiziaria è una: Eni, i suoi manager e i mediatori sono innocenti. 

E il “complotto”? Non è stato organizzato da Amara su mandato del manager Eni Claudio Granata per difendere Descalzi – concludono i magistrati. Alle sue affermazioni non sono stati trovati riscontri: Amara ha fatto tutto da solo, giocando di sponda con manager Eni con cui era in affari, dirigenti infedeli – a detta di Eni – poi cacciati dalla compagnia (Antonio Vella, Massimo Mantovani, Vincenzo Larocca, Alessandro Des Dorides). E Descalzi è risultato beneficiario a sua insaputa delle manovre di Amara.

Lo tsunami giudiziario attorno a Eni lascia alla fine molte macerie
. La Procura di Mani pulite è spaccata e sofferente. E gli accusatori sono trasformati in accusati: la Procura di Brescia apre indagini sui comportamenti del procuratore Francesco Greco, degli aggiunti Laura Pedio e Fabio De Pasquale, dei sostituti Storari e Spadaro, dell’ex consigliere del Csm Davigo. Quello che Silvio Berlusconi non era riuscito a fare, si realizza dopo la sua morte, per “fuoco amico”. Archiviate le accuse a Greco e Pedio, assolto Storari, condannato Davigo, ancora sotto processo De Pasquale e Spadaro. 

I due pm hanno commesso un reato, nascondendo prove ai giudici di Eni-Nigeria? Storari ne è convinto. Ha passato ai colleghi gli elementi che a suo dire dimostrano quanto Armanna sia inattendibile. De Pasquale e Spadaro si sono convinti però di non poterli né doverli depositare. Sono elementi confusi, non certi, non determinanti. La chat in cui Armanna scrive dei 50 mila dollari pagati a un teste è – per Storari – la prova di voler “comprare” una testimonianza falsa contro Eni; ma – per De Pasquale e Spadaro – è invece spiegabile con il tentativo di “comprare” un “file”, ovvero “un rapporto del Efcc, la Polizia economica finanziaria della Nigeria, in cui c’erano i nomi dei pubblici ufficiali che avevano preso le tangenti”. Le chat che secondo Armanna provano le attività di Granata (e Descalzi) a danno delle indagini della Procura milanese sono certamente false secondo Storari, ma – ribattono De Pasquale e Spadaro – nel 2021 erano ancora incerte e sotto perizia informatica. Quelle che per Storari sono prove, per i due colleghi – ma anche per il procuratore Greco e l’aggiunto Pedio – sono elementi ancora tutti da valutare e da approfondire e niente affatto risolutivi rispetto alle imputazioni nel processo Eni-Nigeria. Erano soltanto “un pessimo minestrone”. Dunque da non depositare.

Lo ribadisce De Pasquale, interrogato in udienza a Brescia: non c’era allora e non c’è neppure oggi la prova che i testimoni nigeriani siano stati pagati da Armanna. De Pasquale si ritiene vittima di “un granchio preso da Storari”, anzi, proprio di “un atto ostile” di Storari, che “ha condotto una controinchiesta sul mio processo per disintegrare la credibilità di Armanna già messa in dubbio dalle difese Eni”. Insomma, “una polpetta avvelenata”, una “accozzaglia di cose confuse o sbagliate”: “ciarpame erano prima e ciarpame erano dopo”.

Secondo la memoria (“Il procedimento Unicum”) presentata dal difensore di De Pasquale e Spadaro, l’avvocato Massimo Dinoia, in punta di diritto i due pm non solo non avevano l’obbligo giuridico di depositare quegli atti, ma addirittura non potevano farlo: perché erano atti generati dal sequestro del telefonino di Armanna disposto il 5 novembre 2020, e non si può portare dentro un dibattimento elementi frutto di perquisizioni o di sequestri in danno di imputati di quel processo.

Dinoia ipotizza una spiegazione psicologica all’attivismo di Storari, il grande (e unico) accusatore dei suoi due colleghi. C’è una connessione tra l’azione di Storari e la vicenda dei verbali segreti da lui fatti uscire dalla Procura di Milano. Il processo di Brescia “nasce dalla controindagine che il dottor Storari ha iniziato a condurre dopo che era stato deciso di trasmettere gli atti della Loggia Ungheria a Perugia”. Privato di quella che riteneva “l’indagine del secolo”, avvia una “controindagine” su Armanna, ai danni dei suoi due colleghi. E la implementa dopo essere venuto a conoscenza che erano arrivati ai giornali “i verbali segretati degli interrogatori di Amara, che lo stesso Storari aveva consegnato a Davigo”. Quella “controindagine”, infine, “è servita al dottor Storari per difendere (con successo) se stesso nel procedimento che era stato instaurato contro di lui” per rivelazione di segreto.

A Brescia, il “processo al processo” si svolge sotto gli occhi attenti di avvocati e consulenti Eni presenti a ogni udienza, benché la compagnia non abbia alcun ruolo in quel dibattimento. Gli imputati De Pasquale e Spadaro vi sostengono le loro ragioni: hanno legittimamente e in buona fede selezionato i documenti da depositare al giudice di Eni-Nigeria, scegliendo le prove solide e gli indizi certi e non considerando quelli incerti e contraddittori. Come avviene ogni giorno in tutti i processi italiani. Ma in questo processo – caso senza precedenti paragonabili, nella storia della giustizia in Italia – sono stati messi in stato d’accusa. Benché le dichiarazioni di Armanna – che negli anni cambia maschera e diventa via via amico o strumento o accusatore di Eni – non siano state l’unica prova, né la più consistente, nelle mani dei pm che contestavano la corruzione internazionale. Ben più significativi, come indizi, le email dei manager Shell che raccontavano i comportamenti dei manager Eni; e i passaggi di denaro in contanti in Nigeria.     

La congiunzione astrale-giudiziaria accaduta in questi anni a Milano si è chiusa non soltanto con la proclamazione della verità processuale secondo cui Eni non ha compiuto alcuna azione di corruzione internazionale in Algeria, Nigeria, Congo e non ha ideato alcun “complotto” per ingarbugliare e annodare il gomitolo delle indagini. Ma anche con la inedita messa sotto processo dei magistrati d’accusa, che hanno pur sempre un margine d’autonomia e di discrezionalità per scegliere quali prove ritengono valide e determinanti, a favore dell’accusa e a favore della difesa. Una sentenza di condanna risulterebbe la vendetta della storia contro De Pasquale, l’unico pm che riuscì a ottenere le condanne per Bettino Craxi (corruzione per le tangenti Eni-Sai) e per Silvio Berlusconi (per frode fiscale).

L’informazione italiana assiste placida e distratta
. Più attive e preoccupate le organizzazioni internazionali anticorruzione. Agli atti del processo di Brescia è depositata una lettera del presidente del gruppo anticorruzione dell’Ocse, Drago Kos, che definisce i due magistrati imputati “luminosi esempi per i pm di tutto il mondo”. Più ampiamente, il rapporto Ocse 2022 critica l’Italia per come viene contrastata la corruzione internazionale, accusandola di non rispettare la Convenzione Ocse del 1997 che impegna gli Stati che l’hanno sottoscritta a condannare i propri cittadini e le persone fisiche e giuridiche che pagano mazzette all’estero. Il rapporto dell’Organizzazione per la cooperazione e lo sviluppo economico contiene un esplicito plauso alla Procura di Milano e al suo terzo dipartimento – proprio quello varato dal procuratore Greco e guidato, fino a qualche mese fa, dall’aggiunto De Pasquale – che ha condotto le indagini e i processi Eni, indicato come esempio da preservare addirittura nelle raccomandazioni finali: “È una buona pratica che dovrebbe essere mantenuta”. Ma il rapporto aggiunge che poi i giudici dissolvono le prove raccolte dai pm, frammentando i fatti, esaminando “ogni elemento di prova in modo isolato”, rigettando sistematicamente le prove indiziarie, offrendo “spiegazioni alternative non corroborate da prove”, pretendendo soglie di prova impossibili in un processo indiziario.

I riferimenti espliciti sono a tre procedimenti: quello a Finmeccanica per gli elicotteri venduti all’India e quelli a Eni per gli affari in Algeria e in Nigeria. “In ciascuna di queste tre vicende, invece di considerare contemporaneamente la totalità delle prove fattuali, si considera ciascun elemento di prova solo singolarmente. Per ciascuna voce viene adottata un’interpretazione alternativa, a discarico”. Così si rende impossibile sanzionare le corruzioni internazionali. Queste non solo alterano la concorrenza e truccano il libero mercato nei Paesi “sviluppati”, ma sono un elemento determinante per mantenere i Paesi “in via di sviluppo” sotto il giogo di élite corrotte che si impossessano delle risorse nazionali sottraendole alle loro popolazioni. Nel caso Nigeria-Opl 245, molti milioni di dollari sono stati sottratti alla nazione africana e spartiti tra personaggi politici, alti funzionari, mediatori.

Sulla vicenda nigeriana, il rapporto Ocse cita espressamente alcune delle prove raccolte dalla Procura di Milano (e non valorizzate invece né dal Tribunale che ha assolto, né dalla Procura generale che non ha voluto neppure celebrare l’appello – e che per questo viene espressamente criticata nel rapporto): i messaggi email interni all’azienda dei manager Shell il cui “linguaggio fa pensare alla corruzione”; e gli strani trasferimenti in contanti in Nigeria dei soldi (1,3 miliardi di dollari) pagati da Eni per Opl 245: “Metà del denaro dell’acquisto è stato poi riciclato attraverso molteplici trasferimenti di contanti ai cambiavalute e poi distribuito, anche a un funzionario”. Ma la soglia di prova richiesta dai tribunali italiani – secondo il rapporto – è troppo alta: l’applicazione delle leggi italiane “nella pratica ha portato a uno standard di prova molto pesante nei casi di corruzione all’estero”. E ancora: “I giudici hanno ritenuto che le società in questo caso non possano essere ritenute responsabili di corruzione all’estero, anche se il titolare della licenza aveva un accordo di corruzione con funzionari nigeriani”: “questa interpretazione del diritto italiano non è conforme alla Convenzione Ocse”.

Anche dagli Stati Uniti sono arrivate critiche. Due deputate Usa, Maxine Waters e Joyce Beatty, democratiche, rispettivamente capogruppo della Commissione finanze e della Sottocommissione per la sicurezza nazionale, la finanza illecita e le istituzioni finanziarie internazionali, nel maggio 2024 hanno chiesto al Procuratore generale degli Stati Uniti, Merrick Garland, di riaprire negli States il processo a Eni e Shell, compagnie quotate alla Borsa di New York, per corruzione internazionale in Nigeria. In una lettera inviata al Dipartimento di Giustizia (Doj), sostengono che Shell ed Eni hanno avuto “un ruolo centrale in uno schema di corruzione che ha violato il Foreign Corrupt Practices Act americano, che vieta a cittadini ed enti di corrompere funzionari governativi stranieri per favorire i propri interessi commerciali”. Sostengono che le due compagnie con l’acquisto nel 2011 dei diritti su Opl 245 hanno fatto perdere alla Nigeria “6 miliardi di dollari di entrate future stimate, il doppio del budget annuale della Nigeria per la sanità e l’istruzione”. “Le prove disponibili coinvolgono entrambe le società in uno schema che ha portato al pagamento di 1,1 miliardi di dollari in tangenti a funzionari del governo nigeriano, tra cui l’allora presidente Goodluck Jonathan”. Gli Stati Uniti erano già intervenuti sulla vicenda nel 2013; poi, nel 2019, “il Doj ha notificato a Eni che gli Stati Uniti avevano chiuso le indagini alla luce dell’azione penale dell’Italia sul caso, ma osservando che il fascicolo avrebbe potuto essere riaperto se le circostanze fossero cambiate”.

Ora sono cambiate – sostengono le due deputate. C’è stata un’assoluzione, ma con “una decisione che da allora è stata ampiamente esaminata per i timori di scorrettezze e interferenze politiche”. E “una verifica condotta dai rappresentanti statunitensi e tedeschi del Gruppo di lavoro sulla corruzione dell’Ocse ha rilevato che l’Italia non rispetta gli obblighi legali della Convenzione. Il Gruppo di lavoro ha citato proprio questo caso, nelle sue conclusioni, esprimendo ‘estrema preoccupazione’ per il ‘rigetto sistematico’ delle prove da parte del tribunale”.

La verità processuale in Italia è stabilita: Eni e i suoi manager sono innocenti. Ora resta da stabilire, nel “processo al processo” di Brescia, qual è la verità processuale sui due pm di Milano, accusatori diventati accusati.

micromega.net, 24 settembre 2024
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