MILANO

MicroMega, quella volta che arrivò la censura

MicroMega, quella volta che arrivò la censura

Questo saggio di Gianni Barbacetto è stato pubblicato sul numero 5/2024 di MicroMega, l’ultimo diretto da Paolo Flores d’Arcais, che passa la mano a Cinzia Sciuto

MicroMega è un laboratorio. In questi anni ha elaborato riflessioni sul passaggio della società, della politica, della cultura dal Novecento al nuovo millennio. Dal 1986 a oggi ha distillato pensiero, ricerca, informazione, sull’Italia e sul mondo. È stata anche il mio laboratorio. Gli articoli che Paolo Flores d’Arcais mi ha chiesto di scrivere in questi anni per MicroMega sono stati per me l’occasione preziosa per ricercare, investigare, studiare, approfondire, sviluppare temi e argomenti. Soprattutto sui sistemi criminali italiani, quello della corruzione politica e dei suoi rapporti con le mafie e quello dell’eversione nera e dei suoi rapporti con gli apparati dello Stato. Mi ha dato l’occasione di fare un salto dalla dimensione dell’articolo giornalistico a quella dell’inchiesta ampia e approfondita, dello studio sistematico. Molti degli articoli da me scritti per MicroMega sono poi diventati il materiale da cui sono nati libri che ho pubblicato, sulla corruzione e sull’eversione, o comunque sono stati lievito da cui quei libri hanno preso forma.

Devo scusarmi per il racconto in prima persona, ma è obbligato dai fatti che vorrei raccontare e che mi rendono orgoglioso di aver fatto parte della ciurma di MicroMega. Quest’avventura per me è iniziata nel 1991, quando Paolo mi chiese un articolo-saggio sulla corruzione a Milano. Io ero un giovane giornalista all’inizio della mia storia professionale e fui onorato della proposta: il mio saggio sarebbe stato inserito in una sezione della rivista intitolata “Eclissi di una capitale”, accanto agli interventi di Giorgio Bocca, Corrado Stajano, Guido Martinotti, Silvia Giacomoni, Enrico Regazzoni, Giuseppe Gavioli, Aldo Bonomi e Sergio Scalpelli. Allora lavoravo al settimanale economico Il Mondo, avevo però diretto un piccolo mensile milanese fondato da Nando dalla Chiesa, Società civile, e avevo appeno scritto, insieme a Elio Veltri, il mio primo libro, Milano degli scandali (Laterza), con una coraggiosa prefazione firmata da Stefano Rodotà.

L’articolo per MicroMega fu scritto, consegnato, letto e approvato da Paolo Flores. Ma quando era già in bozze, fu bloccato (per la prima e unica volta nella storia della rivista): da un veto inappellabile di Giorgio Ruffolo, allora direttore della rivista insieme a Paolo Flores d’Arcais, nonché ministro (socialista) dell’Ambiente fino al giugno 1992. Flores era assolutamente contrario alla censura, ma allora vigeva una diarchia in cui i due direttori avevano uguali poteri, di scelta e di veto.

Che cosa diceva, quell’articolo censurato? Alla vigilia dell’inchiesta Mani pulite, dunque prima che fosse scoperto il sistema di Tangentopoli, allineava una serie di fatti che infrangevano l’immagine dorata della “Milano da bere”. E concludeva che sì, “Milano è davvero malata”: “La capitale dell’industria, della finanza, del terziario, della comunicazione, della tv commerciale, della moda, del design, la ex capitale morale del Paese, si è scoperta corrotta dall’alleanza perversa tra affari e politica e si è ritrovata infiltrata dalla mafia dell’eroina e del racket, dell’edilizia e delle cene elettorali con gli uomini dei partiti”.

Segnalava un “allarme rosso” per Milano, a rischio corruzione. E raccontava un “settembre nero”, quello del 1991. Nel giro di poche settimane, in città va a fuoco un bar in via Varesina; viene assaltato a colpi di pistola il commissariato di polizia di Porta Romana; viene bruciato il deposito centrale della Standa (allora di Silvio Berlusconi); viene ucciso un giovane siciliano, l’ennesimo morto ammazzato di una guerra silenziosa e apparentemente incomprensibile; viene arrestato il finanziere milanese Giuseppe Lottusi, grande appassionato di cavalli e grande riciclatore di denaro sporco per conto dei Madonia di Resuttana, famiglia importante di Cosa nostra, e gli inquirenti scoprono che uno dei terminali dei suoi traffici era una struttura pubblica comunale, l’Ortomercato di Milano.

L’opinione pubblica cittadina comincia ad accorgersi che qualcosa si è spezzato, nella narrazione di Milano, quando i magistrati scoprono che in Comune funzionava un “assessorato ombra” che rallentava o accelerava a suon di tangenti le pratiche edilizie. Cinque arresti. Intanto era in corso, non senza colpi di scena, il processo Duomo connection, che per la prima volta aveva certificato la presenza di Cosa nostra a Milano. Il sindaco socialista Paolo Pillitteri però dichiarava: “Milano non è Palermo”. Il ministro Psi Claudio Martelli aggiungeva: “Se davvero l’Italia avesse la situazione di criminalità che c’è a Milano, saremmo tutti in un’isola felice”. Il comunista Gianni Cervetti dava la sua spiegazione tranquillizzante: “È in corso una speculazione politica”.

Mancavano pochi mesi all’inizio di Mani pulite: questo ancora nessuno poteva saperlo. L’articolo però ricostruiva il clima in città e ricordava i passati allarmi, nel bel mezzo della Milano da bere, arrivati da personaggi come Piero Bassetti, quando da presidente della Camera di commercio di Milano dichiarava: “Ho l’impressione che tutto questo dibattito sulle aree testimoni una subalternità della politica al rituale problema della stecca. Secondo come organizzi il metodo, organizzi il furto”. E Antonio Ballarin, allora segretario provinciale della Democrazia cristiana: “Oggi i politici onesti sono costretti ad accettare o perlomeno a convivere con il costume della tangente per poter reggere la concorrenza dei politici disonesti”. E ancora, il presidente dell’Ordine degli architetti di Milano Demetrio Costantino: “Vi sono professionisti che io chiamo architetti da riporto, perché il loro compito non è disegnare dei bei palazzi, ma portare al cliente la licenza edilizia approvata, è questa la loro specialità”.

In quella vigilia di Mani pulite, chi guardava la città con occhi disincantati si rendeva conto che la narrazione non corrispondeva alla realtà. Non solo qualche giornalista attento e indipendente, ma anche persone con incarichi pubblici come l’allora vicepresidente di Confindustria e patron di Artemide, Ernesto Gismondi, che dichiarava: “Milano non sarà Palermo, ma è una città a rischio”. E Aldo Fumagalli, allora presidente dei giovani della Confindustria, che denunciava “la stretta connessione esistente tra cattiva politica, sconfitta della cultura dell’impresa e del mercato, penetrazione del modello mafioso, indebolimento della democrazia”.

La politica invece non vedeva e non voleva vedere. I politici conoscevano eccome il sistema sotterraneo di finanziamenti illeciti che sarà scoperto pochi mesi dopo. Ma non potevano ammettere la “patologia di Milano”. La riducevano, tutt’al più, “a singoli episodi riprovevoli ma in qualche modo fisiologici dentro un sistema sostanzialmente sano”. Si leggeva, in quell’articolo per MicroMega: “Lo scontro sulla definizione di Milano è una battaglia eminentemente politica. È cruciale per la sorte di questa politica. La reazione degli uomini dei partiti non è solo sovrapposizione tra ragioni del buon senso e strumentalità politica (gli altri ci attaccano per un loro tornaconto di partito). Non è solo autodifesa di ceto (la corruzione politica esiste, ma non è generalizzata). Non è solo disputa nominalistica sul nome della cosa (è mafia o non è mafia la criminalità che prospera a Milano?). Non è solo il triste revival della vecchia miopia colpevole dei politici siciliani negli anni Sessanta (‘La mafia a Milano non esiste’). Un vecchio, storico titolo dell’Espresso segnalava con una formula diventata famosa il rapporto tra la capitale e il Paese”: capitale corrotta, nazione infetta.

“Ebbene quel rapporto è oggi tanto più stretto per Milano capitale italiana della produzione e della comunicazione. Il Paese vive una profonda crisi. Il debito pubblico schiaccia le finanze dello Stato, i servizi e le grandi rete reti sono a un livello d’efficienza infinitamente più basso che nei Paesi dell’Occidente, la criminalità organizzata occupa quattro regioni, il sistema dei partiti è incapace di trovare soluzioni efficaci di governo. Insomma Roma, per ciò che questo nome significa nella concretezza politica e nell’immaginario sociale, è pesantemente sotto accusa. Mantenere Milano in qualche modo fuori da tutto ciò, diversa se non proprio indenne, significa per il ceto politico dislocare la crisi in un altrove che salva ancora il cuore del sistema. Accettare il fatto che Milano sia come il resto del Paese, di contro, significherebbe dover ammettere una irrimediabile crisi di regime, la bancarotta di una nomenklatura. E Milano è come il resto del Paese”.

Seguiva un’analisi dei legami tra mafia e politica messi in luce dall’inchiesta Duomo connection, sviluppata da Giovanni Falcone e Ilda Boccassini. “Questa ha svelato una rete di rapporti e di amicizie pericolose tra amministratori e imprenditori dell’illecito, che prefigurano quel clima di collusioni che rende la mafia potente al Sud. A giudicare da molti segnali, sembra che a Milano i rapporti siano ancora per lo più inconsapevoli, le complicità non volontarie. Ma questo potrebbe essere solo il primo atto della tragedia”.

“La posta in gioco del filone politico della Duomo connection (che nel filone mafioso vede la presenza di personaggi di primo piano come Antonino Zacco, uno dei responsabili della più grande raffineria di eroina mai scoperta, quella di Alcamo) è infatti la concessione di licenze edilizie a Milano e nell’hinterland al gruppo di Toni Carollo”, uomo delle famiglie siciliane trapiantato al Nord. Il processo era ancora in corso, le responsabilità penali ancora da definire, ma certo era già visibile una vicinanza, una commistione tra uomini della politica e uomini delle cosche, in un balletto “delle licenze da concedere, delle pratiche da spingere, dei favori da chiedere, delle ruote da ungere”.

Dopo aver chiaramente sottolineato che i contatti erano o potevano essere inconsapevoli, l’articolo allineava i personaggi a vario titolo coinvolti: un sindaco di Milano, un ex assessore all’Urbanistica, una dirigente socialista, un capologgia massone, un presidente del Coreco, il sindaco socialista di un Comune dell’hinterland milanese, un avvocato diventato politico democristiano. E poi: un segretario locale del Psi che organizza una cena elettorale per 300 invitati, con conto pagato da Gioacchino Matranga, condannato a 7 anni al maxiprocesso di Palermo e a 20 a Milano per traffico di cocaina, che aveva offerto un pacchetto di voti al Psi. E ancora: un assessore regionale socialista i cui spot elettorali erano andati in onda negli spazi televisivi comprati da uno degli imputati della Duomo connection. Negli uffici di quest’ultimo, era stato trovato anche materiale di propaganda elettorale di un altro importante candidato del Psi.

Nessun reato, nessuna prova di consapevolezza (le condanne in primo grado saranno poi annullate, solo per i colletti bianchi, dalla Cassazione), ma molti segnali di pericolo, per una “fitta e pasticciata rete di rapporti a rischio che al di là delle responsabilità penali dovrebbe almeno preoccupare gli uomini dei partiti, metterli in allarme. Un allarme che i politici milanesi invece non hanno mostrato di recepire”.

Dopo la bocciatura da parte di Ruffolo dell’articolo che conteneva quello fin qui riportato, arrivano le dimissioni di un ben più autorevole collaboratore di MicroMega, Corrado Stajano: “Caro Paolo, mi chiedi per il prossimo numero un articolo su Psi, Craxi, craxismo, clima degli anni Ottanta. Sono molto imbarazzato dopo la censura dell’articolo di Gianni Barbacetto sui rapporti tra politica e criminalità a Milano: il mio articolo potrebbe avere infatti la stessa fine. Capisco che Ruffolo difenda le sue ragioni di partito che non sono le ragioni della sinistra, ma in questo modo non si fa davvero un passo in avanti… E allora viene a mancare anche la ragione di far parte del consiglio di redazione di MicroMega. Ti prego perciò, con molto dispiacere, di togliere il mio nome dell’elenco dei consiglieri di redazione della rivista”.

La risposta di Paolo Flores d’Arcais fu limpida: “Carissimo Corrado, insisto nel proporti un articolo per la rivista… Per evitare che in futuro dei veti (da parte di chiunque) possano creare situazioni di stallo, in caso di controversie la decisione verrà presa a maggioranza in un comitato di redazione formato dai due direttori e dal redattore capo (Lucio Caracciolo). Questo varrà per ogni articolo, da quello di un principiante a quello di un premio Nobel… Sul caso Barbacetto concordo pienamente con te. Ma questo già lo sai. Ho giudicato e giudico il suo un ottimo lavoro del tutto degno di pubblicazione”.

I titoli di coda di questo film. Ruffolo si disse disponibile a spiegarmi i motivi della sua censura, ma la spiegazione non arrivò. La sua promessa di incontrare Stajano non fu mantenuta. In seguito, Ruffolo abbandonò la direzione della rivista, che restò nelle mani di Paolo. Stajano riprese la collaborazione con MicroMega. Il 14 febbraio 1992 fu arrestato a Milano Mario Chiesa e iniziò l’inchiesta Mani pulite. Un mio saggio sul Sistema Milano fu pubblicato in uno dei numeri successivi di MicroMega. Ogni riferimento a fatti avvenuti a Milano non nel 1991, ma oggi, è (forse) puramente casuale.

MicroMega, 5/2024, 26 settembre 2024
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