Il codice del potere dietro le quinte dell’Italia che conta
Non sembra una lettura da ombrellone, ma resta un libro utilissimo per capire come funziona il potere italiano, che non si ferma neppure in agosto. C’è un esercito potente e poco raccontato, quasi invisibile dietro gli uomini del potere economico, politico, finanziario. È composto da professionisti che fanno però la storia dei poteri italiani. Raccontarli, significa capire meglio quella storia. Sono gli avvocati.
Li racconta Franco Stefanoni in un libro strano e prezioso, Il codice del potere, edito da Zolfo: “Storie, segreti e bugie della più influente élite professionale”. Francesco Carnelutti e Guido Rossi, Natalino Irti e Victor Uckmar, Franco Coppi e Sergio Erede. Le star del Diritto. E, dietro di loro, tanti altri. Civilisti, penalisti, tributaristi, amministrativisti, avvocati d’affari.
Industria pubblica e industria privata, interessi di partito, Mediobanca, le privatizzazioni, le scalate bancarie, le metamorfosi di Telecom Italia. E l’espansione e i guai delle aziende di Silvio Berlusconi, gli scandali finanziari, gli alti e bassi della Fiat, Tangentopoli, le epopee in chiaroscuro delle principali dinastie imprenditoriali.
Franzo Grande Stevens e l’eredità Agnelli, Giulio Tremonti e i conflitti d’interesse da ministro, Augusto Fantozzi e l’accusa di manovrare i concorsi universitari. Stefanoni, già autore di un libro che oggi sarebbe da rileggere, Le mani su Milano (Laterza), nel Codice del potere racconta la storia d’Italia dagli anni Cinquanta a oggi attraverso le vicende degli avvocati che hanno fatto da consiglieri, da strateghi, da difensori dei poteri economici, finanziari e politici. Le origini, gli sviluppi, le strategie, i cambiamenti della professione.
Uscito in una prima edizione nel 2007, ora Il codice del potere è aggiornato all’oggi, con l’ingresso nelle sue 673 pagine delle vicende dell’Ilva, le compravendite delle squadre di calcio, i guai di Chiara Ferragni, i riassetti nella moda da Versace a Prada. È raccontata la lunga crisi legale seguita ai terremoti finanziari mondiali post Lehman Brothers, i default e le ristrutturazioni degli studi che si credevano intoccabili, l’invadenza delle tecnologie, l’abbassamento di valore di certe prestazioni professionali.
L’élite legale negli ultimi anni ha certamente mutato pelle. Le ultime star vecchia maniera o sono morte o si sono messe da parte, ormai centenarie. Prestigio, carisma e genialità dei grandi vecchi e dei principi del Foro appartengono al passato. Si è consumato il fascino dell’aristocrazia del Diritto, benché ne rimanga il mito e l’attrattiva, anche per via degli enormi guadagni possibili.
La prima linea del nuovo gotha è invece costituita da grandi studi che diventano sempre più grandi, con centinaia di professionisti, decine o centinaia di milioni di euro di fatturato. Italiani (come EredeBonelli, Chiomenti, Gianni & Origoni, Legance, PedersoliGattai) e stranieri (come Latham & Watkins, Clifford Chance, Freshfields, Dentons, Dla Piper). Resiste ancora qua e là un po’ di potere accademico, qualche boutique forense arroccata alla tradizione, ma ormai le realtà che comandano nelle law firm di prima fascia sono il mercato, la gestione affidata a comitati esecutivi, le assemblee di partner assimilabili a quelle delle imprese.
Potenze di fuoco sì, ancora molto influenti, ma meno personalizzate, per nulla monarchiche, praticamente manageriali. Più simili agli standard anglosassoni che a quelli tricolori del passato. Meno personaggi da venerare, per i giovani aspiranti avvocati-star. I più ambiziosi di loro si ammazzano di lavoro nei grandi studi quasi h 24 e le figure leggendarie alla Francesco Carnelutti, alla Guido Rossi o alla Michele Carpinelli sono ormai dei totem, degli eroi inarrivabili e lontani.