Milano torna a discutere della città degli abusi e del cemento
Finalmente qualcosa si è mosso. Milano ha ritrovato la voce. Ha cominciato a discutere dell’urbanistica – cioè del suo destino come città – nella nuova situazione determinata dalle inchieste aperte dalla Procura milanese per il sistema di abusi edilizi generato dal nuovo Rito Ambrosiano, ossia dalla consuetudine a costruire ignorando le leggi nazionali che impongono di pianificare per il bene comune dei cittadini.
La prima iniziativa è stata promossa dalla professoressa Maria Agostina Cabiddu al Politecnico di Milano: “Territorio: un bene (in) comune”, con la partecipazione di urbanisti come Paolo Berdini e Chara Mazzoleni, del direttore di Arcipelago Milano Luca Beltrami Gadola, di personaggi come Antonello Mandarano dell’avvocatura del Comune di Milano, Alberto Di Mario del Tar Lombardia, Paolo Evangelista della Corte dei conti, Luca Ramacci della Corte di cassazione.
Anche l’Ordine degli Architetti ha promosso un dibattito sul tema. Così ha fatto pure Rifondazione comunista. E settimana prossima ci saranno altri incontri, uno la sera di lunedì 11 marzo al Cam Garibaldi: “Modello Milano: cattivo esempio per il Paese”; e un altro il pomeriggio di martedì 12 alla Camera del lavoro: “Le politiche abitative e urbanistiche a Milano”.
L’afasia è terminata. La città sta prendendo atto che le inchieste sugli abusi edilizi non sono un accidente della storia, un effetto collaterale nella gloriosa ascesa di Milano al cielo del successo e della ricchezza. Sono una crepa che ci permette finalmente di fermarci a riflettere su che cosa è successo a Milano (e in Italia) in questi anni.
“L’urbanistica è stata cancellata”, ha spiegato Berdini nel convegno al Politecnico. “Il governo della città è stato sottratto alla mano pubblica e consegnato ai privati. In pochi anni abbiamo fatto un salto indietro nella storia di nove millenni”.
Berdini ricorda che nei primi anni del Novecento, un liberale conservatore come Luigi Luzzatti aveva a cuore “il pensiero della città”. E scriveva un libro “sulle case popolari”, nobile dizione sparita dal vocabolario della sinistra, che le ha sostituite con il “social housing”. Dagli anni Novanta è in corso lo smontaggio della città pubblica. I condoni hanno stabilito che la città la fanno gli abusivi. Poi hanno confezionato leggi per devastare il patrimonio pubblico, venduto o svenduto da enti pubblici trasformati in società private.
Dissipato anche il patrimonio degli Iacp, gli Istituti Autonomi Case Popolari, che erano “enti morali”, sostituti con aziende che non vedono l’ora di liberarsi di abitazioni che non sanno gestire. Poi, ancora, arriva l’allargamento ai privati dell’Accordo di programma, nato per accordare enti pubblici, soprattutto Comuni e Regioni. Il pubblico rinuncia a gestire lo sviluppo della città, lasciato agli “sviluppatori” e ai fondi immobiliari.
L’urbanistica è regalata alla finanza internazionale, che decide dove, come, quanto, per chi costruire. Le leggi urbanistiche nazionali, varate nel rispetto dell’articolo 9 della Costituzione, sono aggirate con una proliferazione di leggi regionali e di “consuetudini” comunali (come il nostro nuovo Rito Ambrosiano) che smontano la progettazione della città come bene comune e dilatano il consumo di suolo (+24% in un anno), regalano incentivi volumetrici a chi fa “rigenerazione urbana”, cioè cementificazione massiccia dopo aver abbattuto l’esistente, permettono di occupare ogni spazio, di costruire nei cortili, di edificare grattacieli in forza di un’autocertificazione, di sottrarre verde, asili, servizi ai cittadini.
Quando, finalmente, qualche magistrato apre il codice e dice ciò che tutti sanno – e cioè che le leggi sono state violate – strillano che le regole “rigide” e “obsolete” bloccano lo sviluppo della città. Della città dei fondi, non della città dei cittadini.
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