La manina di Giorgia nei delicati equilibri di Mediobanca
Non è piaciuto al ministero dell’Economia l’intervento di Poste italiane in Mediobanca, se è vero che il ministro Giancarlo Giorgetti ha chiesto all’amministratore delegato Matteo Del Fante di spiegare come mai Poste (che fino al dicembre 2022 deteneva una quota minima del capitale Mediobanca: lo 0,16%) negli ultimi mesi, in assoluto silenzio, ha rastrellato azioni della banca d’affari attestandosi su una quota poco sotto il 3%, soglia raggiunta la quale sarebbe scattato l’obbligo di comunicazione al mercato.
Il 28 ottobre ci sarà l’assemblea dei soci di Mediobanca e la manovra di Poste è stata interpretata come un aiutino di palazzo Chigi alla cordata che si oppone alla lista di maggioranza guidata dal presidente Renato Pagliaro e dall’amministratore delegato Alberto Nagel. Le preoccupazioni si sono diffuse dal mondo della finanza a quello della politica, tanto che un senatore del Pd, Michele Fina, ha presentato un’interrogazione al ministro Giorgetti, chiedendogli se fosse a conoscenza delle operazioni su Mediobanca compiute da Poste italiane attraverso Poste Vita.
La società guidata da Del Fante è controllata dal governo (29% del Mef, il ministero dell’Economia e delle finanze, e 30% di Cassa depositi e prestiti, a sua volta controllata dal Mef). Quando il quotidiano La Stampa, il 30 settembre, ha dato notizia dell’operazione, Poste italiane si è affrettata a spiegare che gli acquisti fanno parte della sua normale attività d’investimento e che comunque non eserciterà il diritto di voto nell’assemblea del 28 ottobre. Gli operatori finanziari hanno però osservato che è strano per una società che gestisce il risparmio postale degli italiani comprare azioni Mediobanca in un momento in cui queste hanno quotazioni alte sul mercato, anche e proprio per effetto delle manovre che preparano l’assemblea.
L’operazione, anche se non inciderà direttamente sul voto, ha comunque ottenuto un doppio effetto: ha tolto dal mercato azioni che potevano essere comprate da investitori istituzionali o comunque sostenitori della lista del cda uscente; e ha abbassato il quorum necessario per vincere. Si prevede che in assemblea si presenterà circa il 75% del capitale Mediobanca: tolto il quasi 3% di Poste, sarà attorno al 72% la quota di cui sarà sufficiente conquistare la maggioranza. Inoltre le azioni di Poste potrebbero, in via ipotetica, anche finire in assemblea, se prestate a qualche soggetto che potrebbe farle pesare per la cordata che si oppone a Nagel.
Gli acquisti di Del Fante, dunque, favoriscono Francesco Gaetano Caltagirone, che con Delfin, la cassaforte della famiglia Del Vecchio, entrerà in assemblea con un 30% delle azioni, mentre la lista del cda uscente parte da un 17%, anche se conta di vincere grazie al sostegno degli investitori istituzionali che hanno garantito l’appoggio a Nagel e Pagliaro.
Sono noti i rapporti tra Caltagirone e Del Fante, già sperimentati nella battaglia (persa) su Generali e nell’alleanza Poste-Gamma su Anima. E sono consolidati i rapporti tra Caltagirone e il governo. Non tanto con Giorgetti, che ora chiede spiegazioni, ma con Giovanbattista Fazzolari, sottosegretario alla presidenza del Consiglio di Giorgia Meloni, grata a Caltagirone che ha schierato in suo sostegno il Messaggero.
Ora, in verità, il voto del 28 ottobre ha perso il brivido: non potrà essere la rivincita dopo la sconfitta in Generali, perché Delfin ha ottenuto dalle autorità regolatrici l’autorizzazione a salire fino al 20% a patto di comportarsi da investitore finanziario e non acquisire controllo o influenza dominante sulla banca d’affari milanese; ha dunque presentato una lista corta, di soli cinque candidati. Ma resta il fatto che una eventuale affermazione della lista di Caltagirone sarebbe un segnale pesante a Nagel. E la conferma che la manina del governo ha provato a mettere il dito nei meccanismi di Mediobanca.