L’uomo che collega
» Luigi Bisignani
Ai bei tempi della P2 era una promessa. Mantenuta: oggi, a un passo da Gianni Letta, conta più di un ministro. È il punto di collegamento alto tra lobbisti della P3, uomini della cricca, personaggi della banda larga di Finmeccanica.
Non troverete il suo nome nelle carte giudiziarie delle tante inchieste in corso sugli scandali di questa caldissima estate 2010. Eppure è il nome che le collega tutte. Non parliamo di responsabilità penali, che son faccende da magistrati. Ma di rapporti, contatti, relazioni. Chi è l’uomo che unisce, a un livello alto, lobbisti della “nuova P2”, uomini della “cricca”, personaggi della “banda larga” di Finmeccanica? Luigi Bisignani è un punto di convergenza. Certo, definirlo “consulente di palazzo Chigi” è impreciso da un punto di vista formale. E non è bella neppure la battuta che circola a Roma, secondo cui Bisignani è stato nominato da Silvio Berlusconi sottosegretario di Stato per interposta persona (in realtà sulla poltrona di sottosegretario è seduta la sua compagna, Daniela Santanché). Eppure Bisignani è, di sicuro, uomo dalle molteplici relazioni, incrocia mondo imprenditoriale e mondo dell’informazione, controlla tante persone, collega molti ambienti. Ed è ascoltatissimo da Gianni Letta, tanto da essere oggi certamente più influente di un sottosegretario.
Non ama apparire. A differenza di tanti altri animali del circo berlusconiano, ritiene che l’esibizione sia, oltre che di cattivo gusto, anche nemica del potere vero. Così, lui che ha tanti amici fedeli nei giornali e nelle società di pubbliche relazioni (quelle che contano), non li attiva mai per una citazione, per una notizia su di sé. Anzi, è difficile trovare negli archivi perfino qualche sua fotografia da pubblicare. È ben altro quello che chiede, quello che ottiene.
Al piano inferiore del caos italiano si muovono bande, cricche e logge, poi subito derubricate, raccontate come l’agitarsi di “tre pirla”, “quattro sfigati”, improbabili “amici di nonna Abelarda”. Al piano di sopra, al riparo da rischi e incursioni giudiziarie, almeno per ora, stanno i registi e gli utilizzatori finali. Bisignani è personaggio di grande simpatia, dalla mente lucida e dall’intelligenza rapidissima. Scrive romanzi gialli e parla, oltre che con Letta, con Angelo Balducci, con Guido Bertolaso, con Denis Verdini, con Pier Francesco Guarguaglini, con Cesare Geronzi…
Ha un certo know-how. Ha sempre negato l’appartenenza alla P2, quella classica, eppure le carte e la tradizione orale gli attribuiscono la tessera 1689 e la qualifica di reclutatore. Nel 1981, quando Giuliano Turone e Gherardo Colombo scoprirono a Castiglion Fibocchi gli elenchi della loggia segreta di Licio Gelli, il ragazzo aveva solo 28 anni. Brillante giornalista dell’Ansa, precoce capoufficio stampa del ministro del Tesoro Gaetano Stammati (piduista) nei governi Andreotti degli anni Settanta. Era una giovane promessa. Mantenuta: dieci anni dopo ha attraversato la stagione di Mani pulite solo con qualche fastidio in più. Una condanna (3 anni e 4 mesi per aver smistato la maxitangente Enimont, ridotti in Cassazione a 2 anni e 8 mesi) che dimostra che il ragazzo, nel 1993, a 40 anni, potente responsabile delle relazioni esterne del gruppo Montedison, era cresciuto.
Anche in abilità e coperture, visto che il peggio di quella stagione resta ancor oggi segreto. Qualcosa ha raccontato Gianluigi Nuzzi nel suo libro ″Vaticano Spa”. Negli anni Novanta, infatti, zitto zitto Bisignani manovra una gran quantità di soldi parcheggiati in Vaticano. Con l’aiuto di monsignor Donato de Bonis, già segretario di Paul Marcinkus, cardinale e indimendicato compagno di scorrerie dei bancarottieri Michele Sindona e Roberto Calvi. L’11 ottobre 1990, dunque, Bisignani apre, con 600 milioni in contanti, un conto riservatissimo presso lo Ior. È il numero 001-3-16764-G intestato alla Louis Augustus Jonas Foundation (Usa). Finalità: “Aiuto bimbi poveri”.
“Bisignani ha ottimi rapporti con lo Ior da quando si occupava di Calvi e dell’Ambrosiano”, raccontò poi de Bonis in un’intervista. “La sua è una famiglia religiosissima; suo padre, Renato, un alto dirigente della Pirelli scomparso da anni, era un sant’uomo, la madre, Vincenzina, una donna tanto perbene. Bisignani è un bravo ragazzo. L’Istituto si occupa di opere di carità e gli amici aiutano i poveri, quelli che non hanno niente. Anche il sarto Litrico mi diceva ‘io vesto i ricchi per aiutare i poveri'”.
I bimbi poveri, in realtà, non ebbero gran giovamento dai soldi della Jonas Foundation. Il 23 gennaio 1991, de Bonis si presenta allo Ior con quasi 5 miliardi di lire in titoli di Stato, li monetizza e suddivide il ricavato su due conti: 2,7 miliardi sul deposito dell’amico Bisignani, mentre quasi 2,2 li accredita sul conto Cardinale Spellman, che gestisce in proprio e per conto di “Omissis”, come viene chiamato in Vaticano Giulio Andreotti. Dal conto Spellman parte subito un bonifico da 2,5 miliardi al conto FF 2927 della Trade Development Bank di Ginevra: è la prima tranche della supermazzetta Enimont, “la madre di tutte le tangenti”, che andrà a irrorare, a pioggia, i partiti politici italiani per benedire il divorzio di Stato tra Eni e Montedison.
Nel giro vorticoso della lavanderia vaticana, sul deposito Jonas Foundation di Bisignani entrano 23 miliardi. E lui, fra l’ottobre 1991 e il giugno 1993, ne ritirerà in contanti 12,4. Che l’uomo sia sveglio lo si capisce già nell’estate del 1993, quando annusa il disastro (i magistrati di Mani pulite stanno per arrivare alla maxitangente Enimont): così il 28 giugno di quell’anno corre allo Ior, ritira e distrugge i documenti che vi aveva lasciato all’apertura dei conti e chiude il Jonas Foundation. Ritira, in contanti, quel che resta: 1 miliardo e 687 milioni. Non avendo borse abbastanza capienti, deve fare due viaggi per portar via il malloppo. Un mese dopo è latitante. È il momento più nero di Mani pulite. Tre protagonisti della vicenda Enimont muoiono in circostanze drammatiche: il presidente dell’Eni Gabriele Cagliari con un sacchetto di plastica in testa in una cella di San Vittore; il regista sconfitto dell’operazione Enimont, Raul Gardini, con un colpo di calibro 7,65 nella sua dimora milanese; il direttore generale delle Partecipazioni statali, Sergio Castellari, con il volto spappolato nella campagna romana.
Tanti conti non tornano, in questa storia. Anche quelli dei soldi. La tangentona Enimont, rivelano i documenti vaticani messi a disposizione da Nuzzi, era ben più grossa di quella individuata dai magistrati di Mani pulite. E molti personaggi sono stati coperti dai silenzi vaticani. Tra questi, l’ineffabile “Omissis”. Almeno 62 miliardi sono stati nascosti, si sono volatilizzati. E di questo tesoro rimasto segreto, 1,8 miliardi sono passati sul conto di Bisignani.
Quattordici anni dopo, un altro magistrato bussa alla sua porta. Si chiama Luigi De Magistris, alle prese con l’inchiesta Why not. Sta indagando su un comitato d’affari attivo in Calabria, ma con la testa a Roma. È convinto che sia organizzato come un’associazione segreta, una nuova P2, tanto che contesta ai suoi indagati proprio il reato previsto dalla legge Anselmi. È convinto che Bisignani di questa nuova P2 sia uno dei punti di riferimento. Il 5 luglio 2007 si presenta di persona, a sorpresa, ai suoi indirizzi romani, l’abitazione e la sua azienda Ilte (Industria Libraria Tipografica Editrice) di piazza Mignanelli. Ha un mandato di perquisizione. Bottino scarso: qualche documento e un Blackberry 7230 blu. “Ho avuto l’impressione che fosse stato avvertito: lui era volato improvvisamente a Londra”, dice oggi De Magistris. “Dopo quella perquisizione, le manovre contro di me hanno un’accelerazione. Due mesi dopo mi sottraggono l’indagine”.
Di Why not restano oggi soltanto i rapporti accertati degli indagati. Bisignani, per esempio, era in contatto con molti politici, imprenditori, manager, uomini degli apparati. Tra questi, Clemente Mastella, allora ministro della Giustizia, Walter Cretella Lombardo, potente generale della Guardia di finanza, Salvatore Cirafici, il dirigente di Wind responsabile della gestione delle richieste di intercettazioni e tabulati inviate all’azienda telefonica da tutte le procure italiane.
Oggi, tre anni dopo, nuova indagine, nuovo comitato d’affari, nuova P2. Luigi Bisignani resta a guardare, dall’alto. Ha visto sbriciolarsi la Prima Repubblica, la Dc, il Psi. Non s’impressiona certo per la decomposizione del berlusconismo.
Il Fatto quotidiano, 24 luglio 2010
Il network dei dossier/1
A scrivere che c’è la manina dei servizi segreti nella campagna contro Gianfranco Fini è una fonte insospettabile, il Giornale: agenti dei servizi e della Guardia di finanza – racconta il 17 settembre il quotidiano della famiglia Berlusconi – sono stati inviati a Saint Lucia, l’isola dei Caraibi dove sono domiciliate le società che hanno comprato l’appartamento di An a Montecarlo poi affittato dal cognato di Fini, Giancarlo Tulliani. Secca smentita, ieri, della presidenza del Consiglio: “Le illazioni, le voci e le congetture apparse su alcuni quotidiani in relazione a una presunta attività di dossieraggio sono assolutamente false, diffamatorie e destituite di ogni fondamento”.
Bene, commenta Italo Bocchino, capogruppo di Futuro e libertà. “Palazzo Chigi ha fatto benissimo a definire irresponsabili le illazioni sul coinvolgimento dei nostri servizi d’intelligence in operazioni di dossieraggio politico-scandalistico”. Ma, visto il passato dei nostri servizi, non si può “avere la certezza che, come accaduto in passato, non ci siano azioni torbide, illegali, deviate”.
Un altro deputato di Futuro e libertà, Carmelo Briguglio, componente del Copasir (il comitato parlamentare che vigila sui servizi di sicurezza) chiede di approfondire, “al di là delle smentite ufficiali, sia la possibile partecipazione a questa azione di dossieraggio di pezzi di servizi deviati, sia l’attività della nostra intelligence a tutela delle massime cariche della Repubblica”. Briguglio già l’11 agosto scorso aveva evocato, proprio in un’intervista al Fatto quotidiano, l’ombra dei servizi: “Ogni qualvolta ci sono vicende ad alta tensione politica, spunta sempre una manina, con carte di natura scandalistica che poi, come è già successo nel caso Boffo, si risolvono in un nulla di fatto”.
Così, rivelava il deputato, “ci sono stati colleghi parlamentari di area finiana che sono stati spiati e filmati”. Il riferimento era a Bocchino, che “è già stato sentito dal Copasir e c’è un’indagine interna in corso”. Dopo mesi di “rivelazioni” e polemiche, le ombre, invece che diradarsi, si sono moltiplicate. Così ora è possibile cominciare una prima rassegna dei personaggi e degli interpreti, dei meccanismi e degli strumenti coinvolti nell’operazione “distruggere Fini”.
Il primo livello, quello visibile, è costituito dai giornali che da mesi stanno conducendo un’ossessiva, monomaniacale campagna contro il presidente della Camera. Intendiamoci: le inchieste giornalistiche ci piacciono ed è non solo legittimo, ma anche meritorio fare luce sui retroscena dei potenti. La campagna sulla casa di Montecarlo realizzata dal Giornale e da Panorama (di proprietà della famiglia Berlusconi) e Libero (testata posseduta dalla famiglia Angelucci) è però troppo simile a un’operazione di vendetta condotta dal presidente del Consiglio contro un uomo politico considerato ormai un traditore e un nemico.
Accanto ai giornali di Berlusconi o a lui vicini, è stato indicato, come motore della campagna, anche il sito Dagospia, che effettivamente ha inventato e praticato prima di tutti il genere letterario “sputtanare Fini e famiglia Tulliani”. Roberto Dagostino è un simpatico guastatore che si diverte a sparare su tutto e tutti e, nella sua furia iconoclasta, finisce spesso per fare dell’ottimo lavoro giornalistico. Ma sulla vicenda Fini-Tulliani qualcuno potrebbe avergli dato un aiutino per trovare materiale da mettere in circolo: è quanto sostiene un altro finiano, Enzo Raisi, che parla di “polpette avvelenate” passate a Dagospia. Sito che, dice Raisi, avrebbe “rapporti con i servizi segreti”.
Senza scomodare le barbe finte, c’è un nome che viene da giorni evocato e sussurrato a mezza voce a proposito di questa vicenda: Luigi Bisignani. È lui l’uomo che, secondo gli amici di Fini, passa notizie a Dagospia. Il sito è da tempo attivo in due campagne: quella contro il presidente della Camera e quella contro Alessandro Profumo, il “Mister Arrogance” fino a martedì sera al vertice di Unicredit. Bisignani ha un ruolo in entrambe le partite.
È l’uomo che collega, che realizza campagne, che rende operative le strategie e realizza i desideri dei suoi autorevoli referenti politici (Gianni Letta), finanziari (Cesare Geronzi), economici (Paolo Scaroni). È il punto alto di convergenza tra “cricche” e “bande larghe”, vecchie e nuove P2. Uomo brillante e intelligente, scrive romanzi gialli e parla, oltre che con Letta e Geronzi, con Angelo Balducci, con Guido Bertolaso, con Denis Verdini, con Pier Francesco Guarguaglini… Con Daniela Santanché, sua compagna fino a qualche tempo fa, aveva anche progettato di rilevare il Giornale. Bisignani ha davvero, come sostengono i finiani, rapporti anche con Dagospia?
Più sotto, in questa vicenda a più piani che ripropone l’eterna storia italiana della politica fatta a colpi di dossier, si muove l’ombra dei servizi segreti. Controllati dalla presidenza del Consiglio, attraverso il sottosegretario delegato, Gianni Letta. Oggi come ai bei tempi di Niccolò Pollari, direttore dell’intelligence militare (che allora si chiamava Sismi, oggi Aise), e di “Shadow”, la sua ombra, il diligente funzionario Pio Pompa che a partire dal 2001 ha accumulato nel suo ufficio di via Nazionale a Roma una mole imponente di dossier illegali su magistrati, giornalisti, politici, intellettuali d’opposizione, considerati “nemici” di Berlusconi da “disarticolare, neutralizzare e dissuadere”, anche con “provvedimenti” e “misure traumatiche”.
Allora furono messi in circolo da Pompa, tra l’altro, falsi dossier su Romano Prodi. Anni dopo, la macchina del fango si è rimessa in moto per azzoppare il governatore del Lazio Piero Marrazzo, non senza contorti passaggi di documenti e informazioni tra Vittorio Feltri, il direttore di Chi Alfonso Signorini e Silvio Berlusconi. E proprio a lui in persona fu portata, la vigilia di Natale del 2005, l’intercettazione segreta tra Piero Fassino e Giovanni Consorte (“Siamo padroni di una banca?”): almeno secondo quanto racconta il faccendiere Fabrizio Favata. Pochi giorni dopo, quella telefonata finì sulla prima pagina del Giornale.
Il Parlamento, che dovrebbe vigilare sull’intelligence attraverso il Copasir, naturalmente non riesce a bloccare eventuali manovre illegali. Anche perché la legge che nel 2007 ha riformato i servizi ha allargato gli spazi d’impunità di cui possono godere. Si è dilatata anche l’area coperta dal segreto di Stato. E poi le operazioni più delicate (e compromettenti) sono realizzate ai margini dei servizi. Da che mondo è mondo, le operazioni sporche si fanno con gli “irregolari”.
Il Fatto quotidiano, 24 settembre 2010
Il network dei dossier/2
“Se il documento di Saint Lucia è falso, la cosa è grave. Ma se è autentico, è ancor più inquietante”. A parlare è Gioacchino Genchi, il consulente che analizzò i tabulati telefonici dell’indagine Why Not condotta nel 2007 da Luigi De Magistris. “In quell’inchiesta c’erano già tutti i personaggi oggi evocati a proposito della campagna contro il presidente della Camera Gianfranco Fini, da Luigi Bisignani fino a Valter Lavitola”, spiega De Magistris.
“Sì, avevamo già individuato il network eversivo che allora era all’opera su altre vicende, che è riuscito a fermare De Magistris e poi ha proseguito il suo cammino, fino all’operazione Fini”, conferma Genchi. Che ripete: “Un network eversivo”. E spiega: “Se il documento sulla proprietà della casa di Montecarlo è autentico, vuol dire che il network ha la capacità, non di costruire una carta falsa – operazione che sarebbe smentita e diventerebbe controproducente – ma di organizzare una filiera internazionale, di raggiungere un ministro estero, di convincere il governo di uno Stato – Saint Lucia – a rilasciare un documento che poi fa un tortuoso giro, da Saint Lucia all’Honduras, dall’Honduras a Santo Domingo, per poi finalmente approdare in Italia, al sito Dagospia di Roberto Dagostino. Un’operazione internazionale per mettere sotto scacco la terza carica dello Stato: capisce perché dico che si tratta di un network eversivo?”.
Italo Bocchino, capogruppo dei finiani di Futuro e libertà, di questo network ha indicato due nomi: Valter Lavitola, dell’Avanti!, e Vittorugo Mangiavillani, del Velino. Entrambi smentiscono. Entrambi hanno avuto un ruolo nelle vicende su cui indagavano De Magistris e Genchi. L’inchiesta Why Not era partita dall’analisi degli affari dell’imprenditore Antonio Saladino, punto di riferimento della Compagnia delle opere al Sud. Ma poi era arrivata a scoprire, secondo le ipotesi dell’accusa, una rete di potere che gestiva insieme informazioni e affari, aveva collegamenti e relazioni, era in grado di conquistare appalti, ma anche di influire sulle istituzioni. Per questo De Magistris s’arrischiò a contestare il reato previsto dalla legge Anselmi, cioè la costituzione di un gruppo segreto, una nuova P2.
Lavitola è più volte intercettato nel corso dell’indagine. L’11 giugno 2005, per esempio, parla con Fabio Schettini, segretario particolare di Franco Frattini, ministro e poi commissario europeo: riferisce di imprenditori (settore “riscossione tributi”) che gli si erano presentati come amici di Schettini. Non era vero: “Fabio ribadisce a Valter che il comportamento di queste persone è molto scorretto e poi gli riferisce che lui ha solo due amici imprenditori, uno è Salvatore Di Gangi e l’altro Ubaldo Livolsi, pertanto gli deve riferire al più presto chi sono queste persone”.
Lavitola, 44 anni, editore e direttore dell’Avanti!, ha trasformato la gloriosa testata socialista nel foglio dei pretoriani di Silvio Berlusconi. Non ha conquistato molti lettori, ma i finanziamenti pubblici per l’editoria. Ha interessi economici in Brasile, dove ha impiantato la Empresa Pesquera de Barra, che commercia pesce all’ingrosso. Proprio in Brasile, durante la visita ufficiale di Berlusconi del luglio scorso, avrebbe organizzato un’indimenticabile serata di lap dance per Silvio, almeno secondo quanto racconta una delle ballerine coinvolte. E ieri sera, nel bel mezzo della tempesta che lo ha coinvolto, Berlusconi lo ha ricevuto a palazzo Grazioli.
Mangiavillani, invece, lavora al Velino, l’agenzia giornalistica nata sotto l’ala di Lino Jannuzzi. “Il Velino è stato generosamente finanziato da Antonio Saladino, il principale imputato di Why Not, e ha avuto un ruolo centrale nell’azione di disinformazione che ha poi portato all’estromissione di Luigi De Magistris dalle indagini”, ricorda Genchi. La tempistica di quell’estromissione la ricorda il protagonista, l’allora pm diventato oggi parlamentare europeo dell’Italia dei valori. “Inverno 2007: contesto la violazione della legge Anselmi al deputato Pdl Giancarlo Pittelli. Giugno: nell’indagine entrano il generale della Guardia di finanza Paolo Poletti e, tra gli altri, il costruttore della “cricca” Valerio Carducci. Luglio: perquisisco gli uffici di Luigi Bisignani. Agosto: il capo degli ispettori ministeriali Arcibaldo Miller arriva a chiudere l’ispezione alla procura di Catanzaro e due mesi dopo io sono fuori dall’indagine”.
C’è una curiosa circolarità nelle storie italiane degli ultimi anni. Tante vicende diverse, da Why Not alle più recenti inchieste sulla “cricca” e sulla “P3”, fino alle campagne condotte contro Gianfranco Fini e, su un altro piano, contro l’ex amministratore delegato di Unicredit Alessandro Profumo. “I nomi che troviamo sono sempre gli stessi”, ribadisce Genchi. “I protagonisti sono sempre quelli di cui avevamo già nel 2007 analizzato i tabulati telefonici”. Il network lavora in quell’area di confine tra apparati di sicurezza e agenzie di stampa, giornali e siti on line, mondo politico e aziende telefoniche. Mischia verità e menzogne, nella migliore tradizione delle “intossicazioni informative” dell’intelligence. “Il presidente del Consiglio dovrebbe stare attento”, conclude Genchi, “si è affidato a una compagnia che può essere utile nel breve periodo, ma è così pericolosa e incontrollabile che potrebbe finire per danneggiare anche lui”.
Il Fatto quotidiano, 25 settembre 2010