La nuova mafia a Milano: nuovi affari, nuove alleanze
di Cesare Giuzzi, Corriere della sera /
«Cumannari» era «megghiu di futtiri». Si può parafrasare il proverbio siciliano, da sempre caro ai boss di Cosa nostra, per tracciare la fotografia più attuale della mafia in terra lombarda. Perché dalle ultime analisi sul fenomeno mafioso, quella di «comandare» non sembra più la priorità di clan e padrini. E non è un dato da poco, visto che da sempre quello del controllo e della egemonia sul territorio è uno dei fondamenti della presenza di clan e organizzazioni mafiose. E anche del 416 bis, il reato che punisce l’associazione mafiosa.
Convergenza d’interessi. Oggi però comandare non serve a niente. Perché anche la meticolosa ‘ndrangheta, sempre attenta ai suoi riti e alla rigida struttura organizzativa, sta edulcorando sé stessa con una maggiore concentrazione verso il solo, unico, obiettivo della sua presenza al Nord: fare soldi. Così la pax mafiosa non è conseguenza di mutati equilibri ma necessità per avviare nuovi sistemi, quasi federativi, tra le organizzazioni. Quella che il procuratore Marcello Viola nel corso dell’audizione davanti alla Commissione parlamentare antimafia, ha definito «una convergenza di interessi delle tre principali organizzazioni, cosa nostra, camorra e ‘ndrangheta, in attività di riciclaggio».
Fino a qui, secondo Viola, avevamo assistito a «forme di collaborazione estemporanea ma antagoniste nella spartizione del territorio», mentre le recenti indagini stanno evidenziando «l’esistenza di accordi anche stabili e duraturi tra calabresi siciliani e criminalità di stampo camorristico».
Un filo rosso che dopo la cattura del boss a gennaio porta a Milano anche gli investimenti di Matteo Messina Denaro e del clan dei trapanesi, espressione moderna ed evoluta della mafia siciliana. Il «network» Il procuratore lo definisce un «sistema di cointeressenze, con l’apporto comune di capitali, la predisposizione di mezzi, la messa a disposizione di risorse umane, la creazione di società, tutti elementi funzionalmente aggregati dal fine comune di trarre profitto da molteplici attività apparentemente lecite che sostituiscono la fonte delle entrate di queste organizzazioni criminali».
Non a caso i magistrati parlano di «network criminale evoluto» che è «espressione di accordi che si saldano su interessi concreti». Tradotto: dove si tratta di fare affari queste mafie si incontrano. Non è questione da poco. Perché è un salto di qualità, forte anche delle batoste rimediate dai clan lombardi in questi anni da carabinieri, polizia, Dia e guardia di finanza. Una mafia sempre più «bianca», come i colletti dei suoi rappresentanti sul territorio, che però ha alle spalle le armi, i capitali e la forza criminale del rispettivo territorio di origine. Il Nord non è più territorio di conquista, le mafie sono ormai endemiche al tessuto economico. Tanto da potersi permettere il lusso di abbandonare (se non nei casi in cui è necessaria) la loro faccia più brutale.
La dolce mafia. Una «mafia dolce» che non fa paura. Che attira altrove le attenzioni degli allarmi di sicurezza e che, anzi, ha tratto beneficio dall’aumento della microcriminalità. Mafia che non spara ma che investe. Non più soltanto nella «volgare» edilizia del movimento terra. Anzi, oggi clan palermitani e aspromontani, campani e trapanesi, siedono allo stesso tavolo.
Sforzandosi (senza neanche troppa fatica) di andare d’accordo. Non per amicizia ma per soldi. Insieme hanno creato network di riciclaggio dove ciascuno ha messo a disposizione il proprio capitale sociale (commercialisti, avvocati, professionisti) per moltiplicare gli affari. Sembra fantascienza, ma il sistema è molto più semplice ed efficace di quanto la filmografia lo abbia in questi anni rappresentato. Si parte dai soldi del narcotraffico, soldi veri, in contanti.
Tanti soldi che però hanno la necessità di essere ripuliti per essere protetti da sequestri e confische. L’uovo di Colombo è, incredibilmente, quello dell’economia legale. Attraverso una rete comune di aziende e cooperative (che spesso esistono solo sulla carta) inizia un vorticoso scambio di fatture che alla fine del giro (magari anche all’estero) si traduce in crediti fiscali che lo Stato versa direttamente alle aziende mafiose.
Il giro dei soldi. In pratica si fingono operazioni commerciali e imprenditoriali che generano crediti Iva.
Il paradosso è che così è lo Stato che finanzia la mafia. Quanto sia grande questo network lo dimostrano le inchieste in corso e i movimenti di contanti a sei zeri. Tanto che di fronte a una così grande massa di denaro i boss si sono rivolti agli specialisti cinesi. I migliori al mondo.
Ogni passaggio ha un costo, una commissione. Ma più grande è il circuito e più si autoalimenta. Così, anche se restano i clan a tenere le redini, il sistema «interbancario» clandestino è aperto anche agli imprenditori che hanno l’incombenza di far girare il «nero». La mafia offre un servizio in cambio di qualche favore, magari di fatture false per spostare altri capitali. Cosa si rischia? Solo robetta fiscale. Reati con pene ridicole.
Truffe al 110. Per questo la mafia ha mutato dopo la pandemia anche i settori di interesse. I boss milanesi, ad esempio, hanno creato imprese per arraffare i fondi del 110: si presentano i progetti, si posano i ponteggi, poi si incassa la prima rata e l’impresa sparisce. L’azienda esisteva solo sulla carta: niente mezzi, niente depositi, nessun lavoratore. Da qui il richiamo del procuratore aggiunto Alessandra Dolci, che guida la Direzione distrettuale antimafia, sulla reale efficacia e pervasività dei controlli delle prefetture: se fatti solo sulla carta non rilevano niente di anomalo.
E le imprese corrette? Muoiono. Il mercato è drogato. I clan non sparano ma quanti morti stanno provocando? La «mafia 3.0» — che mantiene le caratteristiche strutturali delle singole organizzazioni ma ne aumenta esponenzialmente l’efficacia consorziandole — sfrutta i settori che producono fatture. Cooperative e logistica, dove l’esternalizzazione è la regola e le imprese chiudono prima di presentare bilanci e pagare i contributi ai lavoratori. Ma anche l’automotive, i noleggi di auto, i parcheggi e il food and beverage.
Il petrolio L’ultima frontiera, quanto mai attuale, è il petrolio: il commercio di carburanti attraverso i depositi fiscali, non proprio robetta. Già nelle ultime indagini s’era invece visto l’interesse per il mondo dello sport (con i campi da padel), quello nei dispositivi sanitari, nella ristorazione, nell’hospitality.
Ai primi di agosto la polizia ha sequestrato 66 chili di cocaina a Buccinasco, feudo dei clan di Platì. Ma i giovani rampolli della ’ndrangheta sempre più milanesi (ormai alla seconda o terza generazione) non disdegnano l’erba. Anzi, la richiesta del mercato è altissima e le pene irrisorie al cospetto della polvere bianca. I guadagni garantiti. Così si collabora con albanesi e slavi, si commercia con quel milieu di criminalità ormai autoctona che dagli anni Ottanta soffoca piazza Prealpi, Quarto Oggiaro, Baggio o la Barona. Tutto genera soldi. Senza sparare un solo colpo. Che affare.