Craxi, 30 anni dopo scandalizzano le monetine lanciate, non i miliardi rubati
La Prima Repubblica morì in cinque secondi: il tempo impiegato da Bettino Craxi per fare i pochi passi dalla porta di vetro dell’hotel Raphael alla sua auto blu, sotto una pioggia di monetine tirate da centinaia di persone che lo aspettavano da ore scandendo slogan. Era la sera del 30 aprile 1993.
Il giorno prima, al Quirinale, in mattinata avevano giurato i ministri del nuovo governo guidato da Carlo Azeglio Ciampi. Nel pomeriggio, la Camera deve decidere se concedere alla Procura di Milano l’autorizzazione a indagare su Craxi per le tangenti scoperte dal pool di Mani pulite. Ha già detto sì la Giunta per le autorizzazioni a procedere, escludendo che le accuse di Antonio Di Pietro, Gherardo Colombo e Piercamillo Davigo siano viziate da fumus persecutionis. Tutti d’accordo, anche il democristiano Roberto Pinza, che invita maggioranza e opposizione a votare sì.
Prima del voto, Craxi parla per 53 minuti. Dice che si è messo in moto, “con la forza di una valanga, un processo di criminalizzazione dei partiti e della classe politica” che ha alimentato un “clima infame”. Ammette, dopo averli a lungo negati, i finanziamenti illeciti. Ma così fan tutti: “Tutti sapevano e nessuno parlava”, tutti i “maggiori gruppi industriali, quelli che sono stati chiamati in causa e quelli che ancora possono esservi chiamati, anch’essi fornitori dello Stato, tributari dello Stato di sostegni di varia natura, di appalti pubblici, esportatori, proprietari di catene giornalistiche”. Il segretario del Partito socialista denuncia i “processi sommari celebrati in piazza”. Chiede ai colleghi deputati: “Davvero siamo stati protagonisti, testimoni o complici di un dominio criminale?”.
Intervengono in sua difesa il capogruppo democristiano Gerardo Bianco e Vittorio Sgarbi allora eletto nelle liste liberali. Si schierano invece a favore dell’autorizzazione a procedere Rifondazione comunista, Pds, Rete, verdi, radicali, repubblicani, leghisti, missini. La Camera vota a scrutinio segreto: e per quattro volte su sei respinge le richieste dei magistrati. L’aula di Montecitorio si trasforma in un’arena. Agli applausi di soddisfazione si sommano quelli beffardi. Poi urla, strepiti, ingiurie, lanci di volantini, scontri fisici, cori: “Ladri! Ladri!”, “Elezioni! Elezioni!”. Giorgio La Malfa: “Abbiamo scavato un abisso con la pubblica opinione”. Mario Segni: “È una giornata tristissima, incredibile. La democrazia è in pericolo”. Umberto Bossi: “È una mascalzonata dei democristiani. Che sono dei porci”.
I socialisti sono commossi, la deputata Alma Agata Cappiello piange, Claudio Martelli accarezza Bettino. Giuliano Amato è assente e ci tiene a farlo sapere: “Per me sarebbe stato particolarmente difficile decidere come votare”. Quelli non indecisi si trasferiscono invece all’hotel Raphael, dove Craxi viveva quando era a Roma, a festeggiare. Arriva anche Silvio Berlusconi, che brinda con Bettino e poi dichiara: “Sono contento di questo voto della Camera, perché sono da sempre amico ed estimatore di Craxi”.
Ma intanto nel Paese cresce la rabbia e l’indignazione. Il “popolo dei fax” manda migliaia di messaggi che paralizzano i centralini e i fax dei giornali e mandano in tilt il servizio telegrammi delle Poste italiane. Nei messaggi, una parola prevale: “Vergogna!”. In tutta Italia gruppi di cittadini escono di casa e vanno ad assediare le sedi dei quotidiani, delle radio, delle tv, dei partiti, il Quirinale, la Camera, il Senato. A Milano, manifestazione spontanea davanti al palazzo di Giustizia di Mani pulite: “Fuori il bottino, dentro Bettino”. Sventolano, mischiate, le bandiere della Rete, della Lega, del Pds, di Rifondazione, del Msi.
Il leghista Roberto Maroni chiede elezioni subito. Diego Novelli, della Rete, dichiara: “Le scandalose votazioni verificatesi alla Camera, nel corso delle quali è stata negata l’autorizzazione a procedere nei confronti di Bettino Craxi, confermano in modo clamoroso la delegittimazione dell’attuale Parlamento, che conta centinaia di inquisiti, e la necessità di giungere al più presto allo scioglimento delle Camere”. Achille Occhetto, segretario del Pds, dice: “Non possiamo appartenere a una maggioranza che da un lato sostiene il governo e dall’altro nega le autorizzazioni a procedere”. I ministri di area Pds che per la prima volta nella storia repubblicana erano entrati in un governo – Luigi Berlinguer, Vincenzo Visco, Augusto Barbera e il verde Francesco Rutelli – danno le dimissioni dopo appena undici ore dal giuramento al Quirinale.
Il giorno dopo, 30 aprile, i giornali di ogni tendenza grondano indignazione. Repubblica: “Vergogna. Assolto Craxi”. Eugenio Scalfari scrive: “È il giorno più grave della nostra storia repubblicana dopo il rapimento e l’assassinio di Aldo Moro”. Nel pomeriggio, i missini assediano il Raphael. Il deputato Msi Teodoro Bontempo fa distribuire monetine da 50 e 100 lire. Occhetto tiene un comizio nella vicina piazza Navona. Alla fine, anche una parte di chi lo aveva ascoltato si trasferisce in largo Febo, davanti al Raphael. “Ladri! Ladri!”. “Vergogna! Vergogna!” “Chi non salta è socialista!”. “Di Pietro! Di Pietro!”.
Craxi non vuole uscire dal retro, affronta la folla. Per cinque secondi, è sommerso dalle urla e dalle monetine. Poi sale in macchina e va a Canale 5, dove lo aspetta Giuliano Ferrara per un’intervista. Nei giorni seguenti, sul Corriere della sera arriva il commento del professor Ernesto Galli della Loggia: “Dopo quel voto alla Camera è ormai chiaro che sulla scena pubblica italiana esiste un nocciolo duro di malaffare politico”.
Sono passati 30 anni da quei giorni. Oggi abbiamo capito un paio di cose. La prima è che non c’è alcuna Seconda Repubblica, non essendoci stato alcun cambio costituzionale né alcuna seria riforma per eliminare la corruzione. Anzi: nel rapporto politica-affari, in cui prima comandava la politica, ora comandano gli affari; ed è venuta meno anche l’ipocrisia che ai tempi della Dc era perlomeno il tributo che il vizio pagava alla virtù. La seconda è una constatazione: gli stessi giornali, gli stessi politici, gli stessi commentatori, gli stessi magistrati che allora esprimevano indignazione per il voto della Camera che aveva indecentemente salvato Craxi e contro cui si era scatenata la protesta popolare, oggi parlano di vergogna, di agguato, di gogna, di giustizialismo, di squadrismo, di populismo giudiziario. Ieri erano indignati per l’arroganza della politica, oggi per le monetine.