Se questo è odio. Milano è un casinò dove vince sempre Catella
Trucco meschino, quello di buttarla sui sentimenti. Finalmente si torna a poter almeno discutere del “Modello Milano”, della città e della sua londrizzazione. Finora chi osava criticare la narrazione tutta marketing e melassa sulle magnifiche sorti e progressive dell’unica metropoli europea in Italia, veniva accolto con un sorrisino di compatimento, e subito ignorato. Ora almeno si discute (anche grazie al libro L’invenzione di Milano di Lucia Tozzi).
I più arroganti rispondono: se non vi piace Milano, andatevene. I più furbi la buttano invece sui sentimenti: è diventato trendy odiare Milano. È il tentativo di brandizzare anche l’opposizione. Ma naturalmente il problema non è l’odio o l’amore: è la trasformazione strutturale della città. La produzione è stata sostituita dai servizi, con il traino dell’immobiliare.
La vocazione della metropoli (l’“attrattività”) è ormai la produzione di valore immobiliare, alimentata dalle grandi operazioni di “rigenerazione” urbana che ridisegnano la città e plasmano la sua nuova narrazione: vibrante, innovativa, attrattiva, emozionante.
Dicono gli apologeti: ma non siete contenti? aumenta la bellezza, aumenta il valore. Sì: ma dipende dal punto d’osservazione. Il valore aumenta per una ristrettissima minoranza (i gestori del potere immobiliare) e un più ampio indotto (gli operatori dei servizi, delle pubbliche relazioni, dell’immagine, della disneyficazione della città, della sua foodification, con il consenso plaudente del rentier-massa, che fa fatica a vivere con stipendi italiani e costo della vita inglese, ma quadra i conti perché ha comprato anni fa un bilocale bruttino, o forse due, all’Isola o a Nolo e ora gioca con Airbnb).
Tutti gli altri – e sono la stragrande maggioranza – sono puniti da uno sviluppo che aumenta valore (per gli altri) ma svuota le tasche (loro), li affascina e incatena nello storytelling della Milano place to be, ma poi li ricaccia in periferia o li espelle. Chi invece nelle periferie c’è sempre stato non subisce neppure il fascino di quello storytelling e si chiude in un cupo risentimento, votando a destra o smettendo proprio di votare (l’astensionismo alla tornata che ha rieletto Giuseppe Sala ha raggiunto nelle periferie punte del 70-80 per cento).
Una volta, il re di Milano era Salvatore Ligresti: sviluppava la città in accordo con l’amministrazione comunale e con la rude regolazione delle mazzette. Oggi non c’è più alcuna regolazione, in nome della “attrattività” – l’unico programma di sviluppo della città – gli sviluppatori non hanno nemmeno più bisogno delle tangenti, l’operazione immobiliare è benvenuta, la variante è dovuta, la “rigenerazione” è Zeitgeist.
Il nuovo re di Milano, Manfredi Catella, surfa sullo spirito del tempo, sorridendo al neoliberismo progressista che incrementa il consumo di suolo, accresce il cemento, aumenta l’inquinamento, ma costruisce narrazione positiva, sviluppa forme di cooptazione, sostiene la diversity e sponsorizza i diritti Lgbt+. Fa bene il suo mestiere: sviluppa, raccoglie ricchezza anonima in Italia e nel mondo, attinge denaro (dai fondi pensione ai fondi sovrani degli sceicchi amici di Panzeri), e poi getta le fiches sul tavolo verde della Milano place to be, sapendo che il suo gioco è sempre vincente.
È il gestore del casinò che, invece, non fa il suo mestiere: l’amministrazione pubblica ha abbandonato ogni ambizione di governo del territorio, privatizza terra, aria, servizi. Il sindaco fa il notaio degli affari immobiliari, sapendo che generano valore (per pochi), ma sperando che questo sgoccioli poi sulla città. Ha rinunciato a contrastare le disuguaglianze crescenti, a gestire le case popolari, ad adeguare – per 16 anni fino a oggi – gli oneri d’urbanizzazione che potrebbero restituire alla città almeno una parte di quel valore che è un bene comune, espropriato ai cittadini e assegnato a pochi.
Dire questo è odiare Milano?
Leggi anche:
Milano, il soufflé si è sgonfiato