L’album di famiglia di Giorgia Meloni. Il Msi, Almirante e la strage di Peteano
C’è un contatto diretto tra Msi (dunque l’album di famiglia di Giorgia Meloni) e le stragi italiane: l’aiuto dato da Giorgio Almirante all’esecutore dell’attentato di Peteano (tre carabinieri uccisi)
di Gianpaolo Zorzi
(già giudice istruttore sulla strage di Brescia) /
Ho letto e molto apprezzato uno scritto di Gianni Barbacetto dal titolo “La guerra non ortodossa delle stragi italiane. L’album di famiglia di Giorgia Meloni” (Fq Millennium, dicembre 2022). Nell’incipit stigmatizza la mancanza di reale volontà e capacità della destra italiana di sfogliare l’album di famiglia e di fare i conti con il proprio passato, remoto e meno remoto, a ciò non bastando “una banale condanna di ogni totalitarismo” (magari pure abbassando lo sguardo e il tono della voce, come ha fatto, nel suo discorso di esordio alla Camera, l’attuale presidente del Consiglio allorquando ha aggiunto “fascismo compreso”).
E quanto al passato meno remoto con cui fare i conti, mi ha colpito più di ogni altro il seguente passo: “È vero che il personale politico dell’eversione nera proveniva da gruppi esterni al Msi, da Ordine nuovo ad Avanguardia nazionale, che con il partito di Almirante avevano rapporti conflittuali, dialettici, rissosi. Ma quel partito era alfine la casa visibile, il punto di riferimento di un mondo sotterraneo che combatteva la sua stessa battaglia”.
Mi è scattato un relè: a ben vedere, vi è però una delle stragi neofasciste, quella di Peteano del 31 maggio 1972 (tre militari dell’Arma persero la vita e altri due riportarono gravissime ferite), che pare proprio fare eccezione, perché lacera il diaframma tra “mondo sotterraneo” e “casa visibile”, tra “esterno” e “interno”, e riporta fatalmente in primo piano il tema scottante della Fiamma tricolore (simbolico cordone ombelicale – già per il Msi e poi per il partito di Pino Rauti – con la fiamma che arde sulla tomba di Mussolini; “spenta” meritoriamente da Gianfranco Fini, ma poi ricomparsa e tuttora pervicacemente tenuta accesa, addirittura con orgoglio, nel logo di Fratelli d’Italia, tanto da essere stata entusiasticamente ritenuta dalle figlie di Almirante il vero volàno della vittoria elettorale del partito).
Forse è il caso di far presente – in particolare a coloro che hanno deciso di consegnare l’Italia alla destra meloniana, ma anche a chi, a suo tempo, ha avuto la “sensibilità” di porgere le sue condoglianze per la scomparsa di Assunta Almirante, “testimone di rilievo dell’eredità morale e politica del marito Giorgio Almirante e del Movimento sociale italiano” – che in quell’“asse ereditario”, da sempre accettato senza beneficio d’inventario, figura, fra le altre, una “passività” assai pesante: quella costituita dalle precise e non discutibili gravi responsabilità assunte dall’allora segretario nazionale del Msi e dallo stesso Msi (di cui nei giorni scorsi la seconda carica dello Stato e un sottosegretario di Stato non hanno perso l’occasione per celebrare il 76° anniversario della fondazione) in relazione alla strage di Peteano di Sagrado (mi scuserà il collega Casson se metto piede sul suo terreno).
Almirante e Nencioni accolgono Pino Rauti (al centro) all’uscita di san Vittore dopo la scarcerazione il 24 aprile 1972.
Per quella strage sono stati condannati all’ergastolo in via definitiva gli ordinovisti friulani Vincenzo Vinciguerra e Carlo Cicuttini (anche un terzo, Ivano Boccaccio, avrebbe avuto egual sorte processuale, se non fosse deceduto il 6 ottobre 1972 nel conflitto a fuoco verificatosi all’aeroporto di Ronchi dei Legionari nel corso di un tentativo di dirottamento di un velivolo Fokker). All’epoca, Carlo Cicuttini, oltre che ordinovista, era non solo iscritto al Msi (come i suoi correi), ma era addirittura un dirigente locale del partito, segretario della sezione Msi di Manzano, nella Valle del Natisone. E risultò poi:
1) essere il proprietario della Luger calibro 22 (rinvenuta in mano a Ivano Boccaccio a Ronchi dei Legionari il successivo 6 ottobre) utilizzata prima dai terroristi per sparare al parabrezza della Fiat 500 “parcheggiata” in località isolata a Peteano e allestire, così, la trappola mortale in cui caddero i carabinieri accorsi sul posto a seguito di una telefonata anonima ricevuta dalla loro centrale di pronto intervento di Gorizia;
2) essere stato proprio lui l’ignoto autore di quella telefonata (registrata), che fece scattare la trappola, segnalando che sulla strada per Savogna, vicino alla ferrovia, vi era una 500 bianca “che la gà due busi sul parabreza”.
Ebbene, oltre ai depistaggi e ai veri e propri sabotaggi messi in atto da uomini che indossavano, indegnamente, la stessa divisa delle vittime, all’opera di inquinamento delle prove e di occultamento della verità su quella strage si dedicò in prima persona il capo stesso del Msi, Giorgio Almirante, accogliendo una richiesta di aiuto economico pervenutagli per lettera da Carlo Cicuttini (latitante in Spagna e, ribadisco, dirigente locale del partito) volta a ottenere la somma di circa 34 mila dollari, pari al costo dell’operazione alle corde vocali necessaria a evitare che la sua voce, a mezzo di perizia fonica, venisse identificata come quella di chi telefonò ai carabinieri di Gorizia la notte del 31 maggio 1972.
Almirante (e v’è ancora qualcuno che periodicamente osa proporre di intitolargli una via di Roma o di altre città, compresa Brescia), affidandone l’incarico all’avvocato Eno Pascoli (segretario provinciale del Msi a Gorizia e difensore di Cicuttini), provvide a procurare a quest’ultimo la somma di esattamente 34.650 dollari, partita dalla Società di Banca Svizzera di Lugano (dove Pascoli aveva un conto corrente), con passaggio intermedio presso il Banco de Bilbao di Madrid (ove vi era un conto intestato alla moglie di Pascoli, Liliana De Giovanni) e giunta infine a destinazione (anche se formalmente, come è ovvio, non a nome di Cicuttini), dopo un ultimo trasferimento presso il Banco Atlantico (somma poi utilizzata non per la stringente finalità originariamente indicata, ma per l’acquisto di un appartamento, resosi necessario ai fini della tranquilla prosecuzione della latitanza in Spagna).
Ne sortì un procedimento penale per favoreggiamento personale aggravato (in concorso con Eno Pascoli), dal quale, al di là degli sforzi profusi per farsi scudo della doppia immunità quale deputato nazionale ed europeo, Almirante riuscì poi a salvarsi solo grazie a una provvidenziale amnistia, cui, pur potendolo fare, si guardò bene dal rinunciare (anzi, una volta rinviato a giudizio, ne richiese espressamente l’applicazione, unitamente all’avvocato Pascoli, prima dell’inizio del dibattimento).
Ecco, dunque, di cosa è fatta, fra l’altro, l’eredità “morale e politica” di Giorgio Almirante, “il grande uomo” celebrato ogni 22 maggio dall’onorevole Meloni, e del Msi: “Unico caso emerso”, come ha rimarcato Paolo Morando nel libro L’Ergastolano, “di coinvolgimento di un partito politico (di più: dei suoi vertici) per favoreggiamento nei confronti di stragisti”. Assassini di uomini in divisa: ma la destra non è da sempre e comunque schierata dalla parte delle forze dell’Ordine? Non solo, anche di un coinvolgimento, pieno e diretto, addirittura di un suo dirigente locale (oltre che di suoi militanti) in una strage. Anche tutto ciò si porta appresso, con quel logo (e con il sangue di cui gronda), il presunto “nuovo” rappresentato da Giorgia Meloni e dai nostalgici del Msi.
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