Marco Revelli: “L’esercito invisibile dei poveri”. Un promemoria per la sinistra
di Marco Revelli /
C’era una volta un forellino – un forellino piccolo, ma almeno aperto – attraverso cui guardare, dal centro del Palazzo, il mondo dei poveri. Di quelli che, come disse padre Alex Zanotelli, “non vi lasceranno dormire”, a condizione di avere occhi per vederli, e di saper guardare il mondo, almeno un po’, con i loro occhi. Quel forellino si chiamava Commissione d’indagine sull’esclusione sociale (Cies) o, fuori dal formalismo istituzionale, “Commissione povertà”, voluta fortemente all’inizio degli anni 80 da un grande studioso del fenomeno, eticamente e politicamente impegnato, Ermanno Gorrieri, col compito di misurare le dimensioni e le cause della povertà in un Paese che l’aveva quasi sempre ignorata (le precedenti indagini risalivano a Stefano Jacini, un secolo prima), e di renderne edotti governo e Parlamento.
A me è toccato di presiederne l’attività nel penultimo ciclo d’indagine, tra il 2007 e il 2010, prima che il governo Berlusconi, nato nel 2008, la avviasse su un binario morto e che il governo dei tecnici di Mario Monti, considerandola un costo inutile, la sopprimesse tout court, ricacciando la povertà e con lei l’esercito di poveri che cresceva in misura inquietante, nel limbo in cui era stata sempre confinata.
Nell’ultimo rapporto, pubblicato nel 2010, dedicammo un ampio spazio alla questione della “povertà assoluta”, che si incominciava appena allora a misurare. E ricordo che registrammo con stupore – direi con scandalo – la dimensione del fenomeno che allora riguardava 975.000 famiglie e 2.427.000 persone: una cifra che ci sembrava abnorme. Due milioni e mezzo di uomini, donne, bambini a cui mancava – secondo la definizione ufficiale dell’Istat – il “minimo indispensabile per vivere una vita dignitosa” (non potersi permettere due pasti al giorno, un tetto sulla testa, la possibilità di vestirsi, curarsi, muoversi).
Scoprimmo anche, allora, che una parte non marginale di quell’esercito di poveri assoluti era composta da lavoratori, da famiglie il cui breadwinner, colui che porta il pane a casa, era un operaio “o assimilato”. E anche questo era uno choc perché, nel Novecento fordista, chi aveva un lavoro non era povero, e chi era povero non aveva un lavoro. Ora, invece, quella legge veniva infranta. Si era poveri – anche assolutamente poveri – lavorando.
È passato da allora più di un decennio, e quei numeri sono stati “bruciati”. Quello che allora ci scandalizzava, è “poca cosa” rispetto alle cifre che gli ultimi rapporti Istat sulla povertà in Italia ci sbattono in faccia. I poveri assoluti sono diventati nel 2021 5 milioni e mezzo (5.600.000 per la precisione). Le famiglie operaie in povertà assoluta sono il 13,3% (più del doppio rispetto ad allora). Tra le famiglie numerose (con cinque figli) la percentuale sale al livello vertiginoso del 22%! Mentre tra gli stranieri si arriva addirittura al 32,4%.
Quanto poi alla distribuzione territoriale, l’Istat ci dice che quasi la metà di quei 5 milioni e mezzo di poveri assoluti (2.455.000) si concentra nel Sud e nelle Isole. E questo era per molti versi prevedibile. Ma aggiunge anche che, soprattutto per quanto riguarda la povertà minorile e le famiglie con figli, “l’incidenza di povertà assoluta (…) è più elevata nelle aree metropolitane”, e nei comuni oltre i 50 mila abitanti. E questa è una novità, che smentisce il vecchio modello (di origine fordista e novecentesca) che ragionando sulla coppia “centro-periferia” attribuiva alle grandi metropoli di produzione in cui si concentrava la potenza produttiva industriale un tasso di benessere “naturalmente” superiore alle “aree del margine”, ai piccoli centri della provincia e del contado.
Ora quel mito industrialista sembra non funzionare più, in un contesto che vede a ogni livello la “crisi del centro”, riempitosi di vuoti industriali e di aree dismesse, luogo geometrico del processo di sfarinamento e disgregazione di un tessuto sociale logoro. Un ulteriore fattore di conferma della necessità di modificare il “punto di vista” da cui si guarda al Paese e alla sua società: il tema su cui si è appunto discusso e lavorato nell’incontro al Senato “Cantiere delle idee: costruire una società più giusta”, promosso dalla vicepresidente del Senato, Mariolina Castellone, e coordinato da Antonello Caporale.
In fondo, questo ci dicono i poveri – con la loro nuda esistenza – anche del mondo dei ricchi, spesso bloccati in un’immagine di se stessi smentita ogni giorno dalla realtà. Ci dicono che il produttivismo di un tempo, che ha costituito a lungo l’ideologia trasversale di chi vedeva nello sviluppo in sé la chiave per la risoluzione di tutti i problemi sociali e per la diffusione urbi et orbi della felicità, non traccia più l’orizzonte del futuro. Che anzi lavora al contrario, come un sommerso materiale tossico che erode le basi del “buon vivere”. E che alla mera logica del fare occorre abbinare quella del curare: curare le ferite del tessuto sociale, la folla di chi resta indietro, la solitudine di chi vede l’ascensore sociale fermo al palo e non ha riserve per risalire. Curare quelle piaghe, accumulatesi nel tempo, per svuotare le bolle di rancore che crescono sotto traccia e che minano la nostra “pace civile”.
Per questo la scelta sciagurata di questo governo di restaurazione di attaccare frontalmente l’unico strumento che può contrastare l’impoverimento di una parte crescente di società, come il Reddito di cittadinanza, appare cieco e feroce.
Una assurda guerra ai poveri che significa anche guerra alla coesione sociale, con il solo scopo di piantare una sbrindellata bandierina elettorale a rimedio della propria incapacità di cambiare realmente i fondamenti di una politica economica eterodiretta e autodistruttiva. E con lo scopo di sottrarre un po’ di residue risorse agli ultimi per pagare qualche mancetta accattivante ai propri azionisti di riferimento.