“Pòlemos è padre di ogni cosa”, dice Eraclito. Era vero nel 430 avanti Cristo, quando scoppiò il conflitto tra due mondi, due culture, due opposti imperialismi, Atene e Sparta, che si confrontano, si scontrano, si sbudellano per 27 anni in quella che sarà chiamata “guerra del Peloponneso”. È vero oggi, mentre i due imperialismi odierni, dopo un’aggressione scellerata, stanno arrivando a un passo dal conflitto nucleare. I fantasmi del presente aleggiano senza intenzione nel nuovo romanzo di Gianfrancesco Turano, Pòlemos (Giunti), che in quattrocento pagine racconta, con stile omerico e ritmo netflix, le vicende di tre personaggi che nei primi quattro anni della guerra peloponnesiaca si muovono tra Sparta e Atene, Olimpia e Lesbo, Corcira e la Calabria e la Sicilia della Magna Grecia.
Mirrina, giovane donna ateniese, per vendicare il padre ucciso si traveste da uomo e viaggia attraverso le insidie della guerra e degli uomini. Procle, giovane spartano formato per la guerra, finisce tra le mollezze ateniesi restando sempre uno straniero, anche quando torna in patria. Milone, italiota che arriva da Reggio, commediografo storpio e pederasta che aspira (invano) a superare Aristofane, attraversa la guerra da pitagorico dichiarato e incoerente, ma non senza lampi di genio e umanità.
I tre si incontrano, si scontrano, s’intrecciano con la bella Briseide, silenziosa e seducente, la piccola Criseide, il ricco e corrotto Learco assetato di potere, Cleide sua moglie, scaltra e tentatrice, Pagonda, guerriero tebano conoscitore dei cavalli e dell’amore delle vedove, e l’umanissimo Xantia, violento e gigantesco carrettiere sempre in bilico tra schiavitù e libertà. Vite di uomini non illustri, che respirano, viaggiano, combattono, amano nella Grecia di Pericle, illustre padre della democrazia, e del suo nemico Archidamo, valoroso re lacedemone.
Come sempre quando le storie attraversano la Storia, ne svelano il lato nascosto, fatto di grandezze e sopraffazioni, erotismo sottile, ribaltamento e disincanto. La rozza e dispotica cultura spartana (“Nessun lacedemone ammirava Atene, dove il popolo viveva nei lussi e trascorreva le giornate a passeggio per l’Acropoli in chiacchiere che chiamavano filosofia, musica e in altri ozi nocivi”, inveisce Procle.
“Pensavano soltanto ad arricchirsi e questa gara indegna generava l’odio politico, le divisioni, l’egoismo”) si confronta con le raffinatezze della democrazia dell’Agorà, per scoprire, con Procle, che “questo erano gli ateniesi: ornamento di parole e ferocia. Ciò che a Sparta era furto chiamavano tributo. Quello che a Sparta è dispotismo chiamavano alleanza. L’Ellade intera si stava ribellando e i tiranni si erano finalmente tolti la maschera che usavano negli spettacoli teatrali. Erano persiani travestiti che pretendevano ossequio dagli altri greci. Avevano messo in ginocchio una città dopo l’altra. Un’isola dopo l’altra si era prosternata davanti a loro finché era rimasta solo Sparta e adesso pretendevano sottomissione anche da lei, sentinella della libertà”. Storie maestre di vita, oggi come sempre inascoltate, all’ombra minacciosa di Pòlemos, dio o demone immortale.