Di Maio l’Amerikano. La scissione made in Usa
di Gad Lerner /
Lo hanno notato tutti, tra un hamburger e l’altro, al ricevimento organizzato dall’ambasciata Usa per l’Indipendence Day giovedì scorso a Villa Taverna: benché fosse presente la seconda carica dello Stato italiano, Maria Elisabetta Alberti Casellati, l’unico esponente politico invitato a salire sul palco è stato il nostro ministro degli Esteri, Luigi Di Maio. Gratificato dalla speaker del Congresso Usa, Nancy Pelosi, in visita a Roma, di un vero e proprio panegirico. Con tanto di lapsus iniziale: “Qui accanto a me c’è un grande americano scusate, un grande amico dell’America”.
Dacché il vocabolo atlantista ha assunto un rilievo inedito nel lessico politico nostrano, non poteva giungere investitura più solenne al giovane titolare della Farnesina. Tale da seppellire nell’oblio i suoi trascorsi barricaderi di scugnizzo no-euro con tanto di ripetute prese di distanze dalla Nato. In tempo di guerra, Washington apprezza il suo zelo di neofita e riconosce in lui un punto di riferimento sicuro all’interno della variegata politica europea. Meno incline dei tedeschi e dei francesi a lasciarsi tentare dal perseguimento di spazi di manovra autonoma nel confronto con la Russia di Putin.
Se Di Maio riscuote una tale pubblica benedizione, lo deve certamente al ruolo di garante esercitato nei suoi confronti da Mario Draghi, vecchia conoscenza degli americani.
La stessa tempistica della scissione del M5S messa in atto da Di Maio – alla vigilia del dibattito parlamentare sull’Ucraina e del vertice Nato di Madrid – lascia intendere che si è trattato di un’operazione concordata. Per quanto i nostri commentatori si divertano a indugiare sui risvolti di politica interna di questa manovra scissionistica – la rivalità con Conte, la regola dei due mandati – è evidente come essa vada piuttosto inquadrata nel contesto internazionale per quello che è: un progetto di riequilibrio e stabilizzazione degli assetti di potere nel Paese europeo più riottoso ad accettare la linea bellicista della Nato.
Solo degli ingenui, dunque, possono credere che la scissione non sia stata decisa d’accordo con Draghi e con il Dipartimento di Stato americano, preoccupati di mettere al riparo il fronte italiano in vista delle prossime tappe dell’escalation Nato. Vero è che Conte si è subito affrettato a dichiarare che anche il M5S è arruolato nello schieramento atlantista, ma a chi ha pianificato la scissione non sfugge che in Italia né il popolo di sinistra né il mondo cattolico si riconoscono in una tale prospettiva. C’è il rischio che prima o poi una forza politica assuma la rappresentanza della vasta, crescente area di dissenso.
Lo scorso 29 giugno su Il Fatto Domenico Gallo ha evocato un paragone storico interessante, sostenendo che “con Di Maio è nato un mini-Cossiga”. Ricordava, infatti, come nel 1998 l’ex capo dello Stato radunò nell’Udr una pattuglia di parlamentari del centrodestra pronti a dare la fiducia niente meno che a un governo presieduto dal post-comunista D’Alema pur di garantire l’uso delle basi militari italiane Usa nell’imminente guerra del Kosovo, scatenata senza l’approvazione delle Nazioni Unite.
Anche allora si ricorse a una scissione e si sfiduciò il troppo “morbido” governo Prodi pur di dare il via libera italiano alla guerra. Che quella fosse la finalità della congiura, ideata su richiesta degli Usa, lo ha riconosciuto pochi anni dopo Carlo Scognamiglio, cioè colui che nel governo D’Alema assunse l’incarico di ministro della Difesa.
Certo, suona ironico confrontare la biografia del neofita Di Maio con quella di Cossiga, artefice in piena guerra fredda della struttura clandestina Gladio, titolare di un rapporto privilegiato con i servizi americani. Ma i tempi cambiano e si fa ricorso alle risorse disponibili. Del resto, anche Di Maio è riuscito a portarsi dietro, proprio come Cossiga, una sessantina di parlamentari.
Nessuno di loro, per la verità, in precedenza aveva esternato una vocazione atlantista, ma tant’è. Resta da capire quale ruolo s’ intenda assegnare all’Italia nella strategia di riarmo della Nato. Dal vertice di Madrid non sono emersi propositi chiari. Si è confusamente accennato a un megalomane progetto di gemmazione dell’alleanza: una Nato particolarmente aggressiva del Nord Europa, capitanata dal Regno Unito e dalla Polonia; una Nato del Medio Oriente che riunisca Israele, l’Egitto e le petromonarchie del Golfo; addirittura una Nato per l’area dell’indo-pacifico; e infine si sente parlare di una Nato mediterranea, pronta a intervenire sul fronte africano.
Per la verità l’esercito Nato più attrezzato nell’area meridionale resta quello del turco Erdogan che, ancora ieri, si compiaceva di impartire lezioni di democrazia alle nostre “flaccide società dell’opulenza”. Che ora anche il nostro Di Maio indossi l’elmetto, non promette niente di buono.