SEGRETI

Bologna, l’ultima sentenza: la strage nera con i soldi di Gelli e il silenzio dei servizi

Bologna, l’ultima sentenza: la strage nera con i soldi di Gelli e il silenzio dei servizi

di Gianni Barbacetto e Sarah Buono /

Ladro, estremista di destra, informatore dei carabinieri, killer di mafia, pedina della Trattativa Stato-mafia del 1992-93 e adesso anche stragista. Paolo Bellini, 68 anni, di Reggio Emilia, è stato condannato all’ergastolo, con un anno di isolamento, dalla Corte di assise di Bologna per la strage del 2 agosto 1980.

Secondo la nuova sentenza di primo grado, è lui il quinto attentatore della stazione, insieme ai tre neofascisti già condannati in via definitiva – Valerio Fioravanti, Francesca Mambro e Luigi Ciavardini – e al quarto – Gilberto Cavallini – in attesa dell’appello. Fioravanti, Mambro e Cavallini facevano parte dei Nar, i Nuclei armati rivoluzionari. Il giovanissimo Ciavardini apparteneva a Terza Posizione. Bellini era invece di Avanguardia Nazionale. E Ordine Nuovo, il gruppo responsabile delle stragi di piazza Fontana e di Brescia, conosceva sicuramente il progetto stragista prima della sua realizzazione, tanto che uno dei suoi leader, Massimiliano Fachini, a fine luglio 1980 chiama un’amica, Jeanne Cogolli, per avvertirla che “a Bologna sarebbe successo qualcosa di grosso”.

Così ora la strage di Bologna si delinea come un progetto dell’intera galassia della destra neofascista di quegli anni, che a dispetto delle divisioni interne, dei contrasti esibiti e delle sigle diverse agì all’unisono: dietro l’input, e i soldi, del capo della loggia massonica P2 Licio Gelli. Questo è il tassello in più che il nuovo processo, voluto dalla Procura generale di Bologna, porta alla ricostruzione del più grave evento terroristico della storia italiana, con i suoi 85 morti e 200 feriti. Gelli era il burattinaio dei bombaroli, secondo l’ipotesi d’accusa, e finanziava le loro avventure eversive. C’è una data chiave, che questo processo ha messo in evidenza: il 30 luglio 1980. Quel giorno, a Roma sono presenti Valerio Fioravanti e Francesca Mambro, ma anche Licio Gelli, che soggiornava all’Hotel Excelsior, e Marco Ceruti, suo prestanome e cassiere.

Oggi sappiamo – grazie al lavoro della Guardia di finanza guidata dal capitano Cataldo Sgarangella – che dal 20 al 30 luglio, Gelli consegna a Ceruti un tesoretto in contanti: serve a finanziare la strage. Di quel tesoretto, 1 milione di lire è per gli stragisti. Soldi che Gelli anticipa, sapendo che stanno per arrivare sui suoi conti i milioni del Banco Ambrosiano sottratti al banchiere piduista Roberto Calvi. Sgarangella e i magistrati bolognesi lo hanno dimostrato recuperando nell’archivio di Stato di Milano (e valorizzandolo) il “Documento Bologna”: un foglio a quadretti ripiegato in tre, diligentemente scritto un po’ a mano e un po’ a macchina, che viene trovato nel portafoglio di Gelli il giorno del suo arresto in Svizzera, nel 1982.

Da allora quella carta preziosa, libro-mastro della strage, viene dimenticata, sottovalutata, forse usata per oscuri ricatti a uomini dello Stato che temono “gli artigli” di Gelli. Ora la Stele di Rosetta è stata decifrata: 1 milione di lire vanno ai ragazzi delle bombe, 850 mila dollari a “Zafferano”, 20 mila a Mario Tedeschi. Tedeschi era allora parlamentare del Msi e direttore del Borghese. E “Zafferano”? È nientemeno che Federico Umberto D’Amato, il più illustre e luciferino degli agenti segreti italiani, eterno capo dell’Ufficio affari riservati del ministero dell’Interno. Tedeschi e D’Amato, con Gelli, in questo processo sono stati indicati come i mandanti, finanziatori, organizzatori della strage. Morti da tempo, non erano sul banco degli imputati. Bellini sì. Quel 2 agosto, Bellini era alla stazione.

È stato il colpo di scena di quest’ultimo processo: il suo volto, i suoi baffi, i suoi capelli allora ricci, la maglietta azzurrina, la catenina al collo, sono stati riconosciuti nei fotogrammi di un innocente filmato realizzato da un turista svizzero che credeva di andare in vacanza e si è invece ritrovato al centro della storia nera d’Italia.

A confermare che quel ragazzo con baffi e ricci è proprio Bellini è stata Maurizia Bonini, sua ex moglie, nel corso di una serie di udienze particolarmente intense. In passato, Maurizia aveva testimoniato che quel giorno suo marito era in viaggio con la famiglia verso il Passo del Tonale. “Ho detto una bugia”, ha detto l’ex moglie in aula, “chiedo scusa a tutti, quello nel video è lui: è Paolo, ha ingannato tutti, me per prima”.

Tra i testimoni, anche la figlia, Silvia Bonini, che da vent’anni ha cambiato cognome e interrotto i rapporti con il padre: “Questa vicenda ha scombussolato la mia vita, credo sia giusto dare testimonianza per una cosa così grave, ma soprattutto perché penso alle vittime”. Nel processo, recuperate anche le testimonianze di due detenuti che riferivano le confidenze fatte dal fratello di Bellini, Guido, in carcere poco prima di morire: “La bomba? L’ha portata Paolo, che ha incassato 100 milioni”.

In aula, ad ascoltare la lettura della sentenza, ieri c’era simbolicamente tutta Bologna. Il sindaco, Matteo Lepore, e la vicepresidente della Regione, Elly Schlein. E, soprattutto, i parenti delle vittime, silenti e composti, da 42 anni alla ricerca della verità. Anna Pizzirani, vicepresidente dell’associazione dei famigliari, madre di una bambina che fu ferita dalla bomba, non si è persa un’udienza dei tredici lunghi processi che dal 1987 a oggi hanno scritto la storia della strage. Un’impresa che non sarebbe stata possibile senza il lavoro meticoloso di ricerca fatto dal team di legali dell’associazione, capitanato dall’avvocato Andrea Speranzoni.

Condannati anche gli altri due imputati del processo: 6 anni, per depistaggio, all’ex capitano dei carabinieri Piergiorgio Segatel; e 4 a Domenico Catracchia, ex amministratore di condomini in via Gradoli a Roma, accusato di false informazioni al pm al fine di sviare le indagini.

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Gianni Barbacetto e Sarah Buono, Il Fatto quotidiano, 7 aprile 2022
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