Riforma Cartabia, altri processi a rischio. Come quello Regeni
- di Gianni Barbacetto e Valeria Pacelli /
E dulcis in fundo ci sono le notifiche. Anche su queste è intervenuta la riforma Cartabia. Il testo votato a settembre dal Senato ha infatti fissato dei paletti più stringenti per quanto riguarda le comunicazioni che devono essere fatte agli imputati per dar loro la consapevolezza di essere coinvolti in un processo. I risultati di queste indicazioni si conosceranno in futuro: solo una volta stilati i decreti legislativi si potrà sapere se la normativa facilita realmente il lavoro delle Procure che devono comunicare agli imputati i processi a loro carico, o se invece consegnerà un’arma in mano agli imputati per ritardare o bloccare il giudizio. Soprattutto per coloro che affrontano il processo in contumacia, ossia non si presentano davanti al loro giudice.
È il caso tipico di tutte quelle inchieste i cui imputati sono persone straniere. Per esempio, gli accusati di omicidi di italiani commessi all’estero. La normativa, seppur molto tecnica, potrebbe avere quindi conseguenze pesanti e mettere a rischio processi come – per fare il più clamoroso degli esempi – quello ai torturatori e assassini di Giulio Regeni.
Per chiarezza: qualunque sarà il decreto legislativo, non si potrà applicare retroattivamente al processo agli agenti egiziani che di quei delitti sono accusati, ma la nuova disciplina peserà eccome su tutti i processi simili futuri. Questo ovviamente impensierisce molti magistrati che si domandano se e quali norme verranno varate e se metteranno a rischio le loro inchieste.
È all’articolo 2 che la riforma Cartabia prevede tra le altre cose una serie di principi e criteri direttivi da seguire. Uno degli aspetti riguarda appunto la consapevolezza dell’imputato di avere un processo in corso. È peraltro la questione che si discuterà nuovamente oggi – e vedremo perché – all’apertura del processo agli agenti egiziani per il caso Regeni.
Nel testo della riforma voluta dalla ministra Marta Cartabia si impone anche di “ridefinire i casi in cui l’imputato si deve ritenere presente o assente nel processo, prevedendo che il processo possa svolgersi in assenza dell’imputato solo quando esistono elementi idonei a dare certezza del fatto che egli è a conoscenza della pendenza del processo e che la sua assenza è dovuta a una sua scelta volontaria e consapevole”.
Su questa linea, il testo propone i criteri da seguire: alcuni sono già presenti nella normativa italiana, ma in futuro dovranno essere più stringenti. La questione è già normata nel codice di procedura penale, anche all’articolo 420 bis, che riguarda “l’assenza dell’imputato”. Proprio di questo si discuterà oggi all’apertura del processo agli agenti degli apparati di sicurezza egiziani ritenuti dalla Procura di Roma i sequestratori di Giulio Regeni.
Due uomini del dipartimento di sicurezza del Cairo, Tariq Sabir e Athar Kamel Mohamed Ibrahim, e due agenti della National Security Agency, il servizio segreto interno egiziano, Uhsam Helmi e Magdi Ibrahim Abdelal Sharif, sono accusati del sequestro del ricercatore italiano, mentre il solo maggiore Sharif è accusato anche di lesioni aggravate e omicidio. È lui l’uomo che – secondo la Procura di Roma – con altri soggetti ancora da identificare (su questo le indagini sono ancora in corso), “con crudeltà, cagionava a Regeni lesioni che gli avrebbero (…) comportato l’indebolimento e la perdita permanente di più organi, seviziandolo, con acute sofferenze fisiche, in più occasioni e a distanza di più giorni”.
L’indagine è stata condotta in questi anni dal procuratore di Roma Michele Prestipino e dall’aggiunto Sergio Colaiocco che, nonostante la quasi inesistente collaborazione dei colleghi egiziani, sono riusciti a ottenere il processo per i quattro 007. Non vi è stata collaborazione da parte delle istituzioni del Cairo neanche quando i magistrati capitolini hanno chiesto con una rogatoria internazionale l’elezione di domicilio degli agenti.
Già un giudice dell’udienza preliminare ha stabilito che il processo può comunque svolgersi, con questa motivazione: “La copertura mediatica capillare e straordinaria ha fatto assurgere la notizia della pendenza del processo a fatto notorio”. Dunque gli agenti non possono essere all’oscuro delle accuse a loro carico e il processo può essere celebrato. Ma il codice italiano prevede che questa decisione, già assunta nell’udienza preliminare, di fronte a imputati in contumacia debba essere rinnovata in ogni grado del processo. Quindi oggi la questione sarà di nuovo affrontata in Corte d’assise.
Il pm Colaiocco ribadirà la posizione netta della Procura e aggiungerà ulteriori dieci elementi che dimostrano come si sia cercato dapprima di depistare le indagini, poi di rallentarle e infine, con la mancata elezione di domicilio, di far saltare il processo. Per la Procura di Roma quindi gli imputati si sono sottratti volontariamente al processo. La National Security – ricostruisce Colaiocco – sapeva: avevano anche i documenti del ricercatore trovato senza vita al Cairo nel febbraio 2016, hanno visto i video alla fermata della metropolitana di Dokki dove Regeni è stato sequestrato il 25 gennaio di quello stesso anno. Tutti elementi che per gli investigatori italiani dimostrano la consapevolezza degli imputati delle accuse loro rivolte.
Già oggi questo nodo potrebbe essere sciolto: se la Corte d’assise seguirà la linea del giudice dell’udienza preliminare e della Procura, il processo potrà proseguire con gli imputati assenti giudicati in contumacia. Altrimenti i giudici potrebbero chiedere una sospensione del procedimento.
Il rischio di non poter celebrare i processi agli imputati che si sottraggono alle notifiche, nel futuro potrebbe essere aggravato dalla riforma Cartabia e potrebbe riguardare anche tutti i processi con imputati in contumacia. Tutto dipenderà da come sarà redatto il decreto legislativo sulle notifiche, che dovrà rispettare i criteri richiesti dal testo della riforma. L’allerta dunque resta alta.