Expo e mafia. Arrivano le indagini, ma lo “storytelling” non si cambia
C’è voluta un’inchiesta della Procura di Reggio Calabria per rivelare, un anno dopo la fine dell’esposizione universale, che la ’ndrangheta aveva messo le mani su Expo. Le imprese legate alle cosche calabresi Aquino-Coluccio di Gioiosa Jonica e Piromalli-Bellocco di Rosarno si erano aggiudicate importanti subappalti per Palazzo Italia, le vie d’acqua, i cluster, la “piastra”, i padiglioni di Cina ed Ecuador. Nel luglio scorso, un’altra indagine aveva fatto emergere la presenza di Cosa nostra: il consorzio Dominus, che aveva allestito in subappalto stand e grandi padiglioni stranieri, faceva riferimento a siciliani che portavano i soldi ai boss di Pietraperzia, in provincia di Enna. Il cocktail Expo: qualche parte di ’ndrangheta e una parte di Cosa nostra. Aspettiamo la spruzzata di Camorra e poi le principali organizzazioni mafiose ci sono tutte.
Eppure nessuno s’indigna. Ormai l’esposizione universale è stata archiviata come “grande successo”. Lo storytelling di Expo è una narrazione fatta di folle oceaniche, code al padiglione del Giappone, occhi incantati delle luci dell’Albero della vita, aumento dell’occupazione e del pil, milioni di euro attesi nei prossimi anni come ricadute positive dell’evento (addirittura 31,6 miliardi d’indotto nei prossimi 15 anni, con 240 mila occupati).
Nessun giornale – a parte il Fatto quotidiano – ricorda i duri fatti. I 21 milioni di biglietti venduti ai grossisti non sono stati tutti effettivamente incassati, i visitatori veri non sono stati più di 15-18 milioni, i conti reali sono disastrosi (2,2 miliardi di soldi pubblici spesi, con incassi non superiori ai 700 milioni), la disoccupazione non è diminuita, il pil italiano è cresciuto a malapena di uno zero virgola, le cifre dell’impatto economico futuro sono promesse da cartomante redatte su commissione. E quell’area enorme (e costosissima) su cui è stata montata la grande fiera non ha ancora, al di là di mirabolanti human-tecno-promesse, un destino certo.
Quel che è sicuro, scritto nero su bianco nelle carte delle indagini giudiziarie, è che le mafie a Expo hanno banchettato. “Non hai capito, noi bruciamo tutto!”, dicevano intercettati gli uomini delle cosche. Ci avevano detto, con grande vanto, che l’esposizione universale è stata un modello anche per quanto riguarda la sicurezza e i controlli antimafia. Ora le inchieste giudiziarie smontano miseramente questa pretesa: né i controlli né la retorica sono riusciti a fermare le aziende collegate alle famiglie calabresi e siciliane.
Come sappiamo, lo storytelling radioso di Expo ha avuto anche un effetto politico: sulla base del (presunto) successo dell’esposizione, il manager che l’ha gestita è stato candidato sindaco di Milano e ha vinto le elezioni. Oggi i giornali si guardano bene dal fare i conti finali e relegano le notizie sulla mafia in Expo nelle pagine locali. Altrimenti sarebbero costretti a rivedere i giudizi entusiasti sull’evento, ma soprattutto su Giuseppe Sala, diventato nel frattempo sindaco di Milano.
Un manager che non si è accorto di quello che succedeva attorno a lui non ha naturalmente responsabilità penali, fino a prova contraria. Ma un manager che non ha visto che, non solo la “cupola” della corruzione, ma anche le mafie si erano impossessate dell’esposizione non è certo da premiare. La sua vantata immagine di custode della legalità dell’operazione esce a pezzi. Eppure i giornaloni tutti zitti: non possono smentire la narrazione che hanno contribuito a creare.
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