Come un diligente ragioniere di provincia, Licio Gelli teneva il suo documento più segreto accuratamente ripiegato nel portafoglio. Il Maestro Venerabile, volonteroso funzionario dell’eversione, aveva scritto su un foglio a quadretti, in parte a macchina e in parte a mano, in stampatello, una misteriosa contabilità divisa in nove colonne: data, motivo, importo, conto, note, e poi ancora data, note, importo. Ripiegato in tre, ha l’aria di quei libretti che i bambini fabbricano per gioco. Ma qui il gioco è pericoloso. Sulla copertina, il titolo è scritto a macchina a lettere maiuscole: “BOLOGNA-525779-XS”.
Questo libretto così infantile e così terribile – secondo la Procura generale bolognese – racconta i flussi dei soldi con cui Gelli ha finanziato la strage del 2 agosto 1980. Il “Documento Bologna” è stato per quarant’anni una prova dimenticata. Invisibile, come la “lettera rubata” di Edgar Allan Poe che nessuno vedeva eppure era ben esibita sopra il caminetto. A trovarla – anzi, ri-trovarla – è il sostituto procuratore generale Nicola Proto, che con il collega Umberto Palma e l’avvocato generale Alberto Candi l’ha scovata, ingiallita dal tempo, nell’Archivio di Stato di Milano, conservata insieme a centinaia di altri documenti del processo sul Banco Ambrosiano.
La stele di Rosetta dell’attentato
Era stata estratta dal portafoglio di Gelli dopo il suo arresto a Ginevra, il 13 settembre 1982, e sequestrata dalle autorità svizzere. Per quattro anni era rimasta negli archivi elvetici e mandata in Italia il 16 luglio 1986, consegnata al giudice istruttore che stava indagando sul dissesto dell’Ambrosiano, Antonio Pizzi. Contrassegnata con il numero 27, è subito definita documento di “particolare interesse”. Eppure non si riesce a capirne il senso: “Bologna… non si riesce allo stato a dare un significato ben preciso”. A Gelli non vengono mai fatte le domande giuste.
Adesso i magistrati bolognesi ritengono di aver interamente decifrato la stele di Rosetta della strage. Il numero 525779-XS indica un conto svizzero di Licio Gelli aperto presso l’Ubs. La denominazione “BOLOGNA” indica che lì è raccontata la storia dei soldi che finanziano la strage. Il documento allinea due flussi di denaro: il primo è chiamato “Dif. Mi” e si articola in sette operazioni bancarie tra il 3 settembre 1980 e il 15 febbraio 1981 per un totale di 10 milioni di dollari; il secondo è “Dif. Roma”, un flusso di 5 milioni di dollari che si muovono nei primi mesi del 1981.
Che cosa significano “Dif. Mi” e “Dif. Roma”? E qui la storia si fa appassionante. Significano “Difesa Milano” e “Difesa Roma”. A Milano Calvi era indagato per violazioni valutarie, a Roma per concorso in bancarotta nel crac del gruppo Genghini. Il gatto e la volpe, Gelli e il suo compare Umberto Ortolani, riescono a convincere Calvi che grazie ai loro rapporti di loggia lo faranno prosciogliere, sia a Roma, sia a Milano. Ma le due operazioni hanno un costo: 10 milioni quella di Milano, 5 quella di Roma.
Così il povero ragiunatt diventato padre-padrone dell’Ambrosiano risucchia 15 milioni di dollari dal Banco Ambrosiano Andino e li affida al gatto e alla volpe, che non li usano però per corrompere i giudici, come promesso, ma per finanziare se stessi e gli uomini della strage. A “UL” (cioè Umberto e Licio) vanno il 20% di “Difesa Milano” e il 30% di “Difesa Roma”: è la mediazione sul millantato credito, in cambio di una corruzione dei giudici solo promessa. È uno spettacolo di arte varia quello che il gatto e la volpe mettono in scena per convincere Calvi che stanno lavorando per lui: gli mostrano perfino una ricevuta bancaria per Ugo Ziletti, allora vicepresidente del Consiglio superiore della magistratura. Tutto finto. Non pensano affatto ai guai giudiziari del ragiunatt. Hanno di peggio da fare.
Il denaro comincia a correre. Parte il flipper. Il 22 agosto 1980, i 10 milioni della “Difesa Milano” transitano dall’Andino alla società Nordeurope, poi si dividono, metà alla Noè 2 e metà alla Elia 7 (due società di Ortolani), per ricongiungersi nel conto Ubs 596757 di Gelli. A settembre passano in tre conti Ubs: Bukada, Tortuga e il fatidico 525779-XS. I primi due sono di Marco Ceruti, fido braccio destro finanziario di Gelli e suo prestanome bancario; il terzo è di Gelli in persona. È il “conto Bologna”.
Scoperto “Zafferano”: è il capo degli Affari riservati
Nel settembre 1981 altri milioni partono dall’Andino, passano per Bellatrix, arrivano a Antonino 13 (conto di Ortolani) e finiscono a Bukada (di Ceruti). Ora arriva il bello. I magistrati bolognesi e gli uomini della Guardia di finanza guidati dal capitano Cataldo Sgarangella vedono che i soldi di Calvi cominciano a muoversi dal 22 agosto 1980. La strage è del 2 agosto. E sul “documento Bologna” c’è qualcosa che non quadra: ci sono 1.900.000 dollari segnati con “dare a saldo” (nella colonna “Motivo”) e con “restano 1.900.000” (nella colonna “Note”).
Come si spiega? Lo fa capire un bigliettino sequestrato a Gelli il 17 marzo 1981 nel suo ufficio di Castiglion Fibocchi, insieme a tanti altri documenti e alle liste della loggia P2. Il bigliettino è scritto a mano. Vi si legge: “A M.C. consegnato contanti 5.000.000 – 1.000.000” e “dal 20.7.80 al 30.7.80”.
Che cosa significa? “M.C.” è Marco Ceruti. Spiega in aula il capitano Sgarangella che c’era qualcosa di tanto urgente da costringere Gelli ad anticipare in contanti suoi, a luglio, quanto poi arriverà da Calvi e sarà recuperato solo a settembre, sul “conto Bologna”: il tesoretto per finanziare la strage. Un milione in contanti per gli stragisti tra il 20 e il 30 luglio 1980; più 850.000 per “Zaf” il 30 luglio; e 20.000 per “Tedeschi Artic”.
Altri 4.000.000 affluiscono sui conti Bukada e Tortuga. Di questi, 340.000 vanno a Giorgio Di Nunzio – sostengono gli investigatori – per finanziare la strage. “Tedeschi” è Mario Tedeschi, allora parlamentare del Msi e direttore del Borghese, oggi accusato di essere uno dei mandanti, insieme a Gelli e insieme a “Zaff”, che riceve una bella fetta del denaro di Calvi: è “Zafferano”, ovvero Federico Umberto D’Amato, capo degli Affari riservati e gran gourmet noto per la sua incontenibile passione per lo zafferano e per i misteri neri d’Italia. (Il Fatto quotidiano, 6 giugno 2021)
Calvi, la pista della strage
per spiegare la sua morte
La bomba alla stazione di Bologna esplode la mattina del 2 agosto 1980. Il banchiere Roberto Calvi viene ucciso a Londra, appeso al ponte dei Frati neri, due anni dopo, la notte del 18 giugno 1982. Che correlazioni ci sono tra questi due eventi neri? Stanno tentando di rispondere i magistrati della Procura generale di Bologna, udienza dopo udienza, nell’ultimo processo sulla strage, con imputato (vivo) Paolo Bellini e con Licio Gelli, Federico Umberto D’Amato e Mario Tedeschi (morti) indicati come mandanti. “Una parte della nostra istruttoria”, ha anticipato in udienza il sostituto procuratore generale di Bologna Nicola Proto, “è relativa all’omicidio Calvi che, per come abbiamo accertato, è strettamente connesso con la strage”.
L’ipotesi d’accusa è che la strage sia stata finanziata con i soldi del Banco Ambrosiano sottratti a Calvi, come raccontato dal “Documento Bologna” (e spiegato nell’articolo qui a fianco). Ma c’è qualcosa di più, anticipano i magistrati bolognesi: “C’è la seria e concreta possibilità che Calvi sapesse di questa vicenda”. Ucciso dunque (anche) perché non parlasse di Gelli, dei neri e della strage?
Quello che è certo è che la Londra in cui Calvi compie il suo ultimo viaggio, in quei mesi è affollata di personaggi dell’estrema destra italiana. Ma ancor più curiosa è “la strana confluenza di soggetti a Londra in quei giorni”, dice Proto. C’è Flavio Carboni, che accompagna Calvi nella capitale britannica e lo sistema in un residence. In quello stesso residence, c’è una stanza affittata da Sergio Vaccari, antiquario italiano con base a Londra, che la mette a disposizione di alcuni suoi ospiti.
In quei giorni, sulle rive del Tamigi ci sono anche Francesco Pazienza, che allora era il grande manovratore del Sismi (il servizio segreto militare) e il suo segretario Maurizio Mazzotta. Sia Carboni, sia Pazienza, sia Mazzotta in quelle ore telefonano in Italia, alla stessa persona: il prefetto gourmet, Federico Umberto D’Amato, per anni potentissimo regista dell’Ufficio affari riservati (il servizio segreto civile).
Queste connessioni inglesi saranno affrontate nelle prossime udienze del processo, quando l’accusa cercherà di tirare i fili che legano Calvi a personaggi della massoneria (Carboni e Gelli), dei servizi segreti (Pazienza e D’Amato), dei neofascisti italiani (tanti, in giro per Londra in quei mesi). L’antiquario Vaccari, secondo alcune fonti, fu l’ultimo a vedere Calvi vivo. Ora scopriamo che era in contatto con Giorgio Di Nunzio, che è considerato il primo beneficiario dei soldi che Gelli storna dal Banco Ambrosiano di Calvi e dirotta per finanziare la strage.
A Londra, Vaccari si occupava di trovare sistemazioni per i latitanti di estrema destra in fuga dall’Italia. La sua agenda era zeppa di numeri di neofascisti italiani. Tra questi, Stefano Orlandini, che fu subito indagato per la strage di Bologna e subì una perquisizione subito dopo il 2 agosto.
Sulla morte di Calvi si è a lungo indagato, ma finora senza certezze definitive. È stata esclusa l’ipotesi iniziale del suicidio, ma non sono state ancora accertate le responsabilità di chi l’ha ucciso. Nel 2016 sono state archiviate le accuse a Gelli, Carboni e Pazienza. Di certo erano in molti ad avere interesse che il banchiere tacesse per sempre. I mafiosi di Cosa nostra che gli avevano affidato molto denaro che era andato perso nel crac dell’Ambrosiano. I personaggi del Vaticano che avevano collaborato con lui, con scarsa fortuna, a riciclare nello Ior i soldi delle sue banche. I vertici della P2 che lo avevano usato e depredato.
Ora la Procura generale di Bologna aggiunge un ulteriore elemento: se Calvi sapeva dei finanziamenti di Gelli agli stragisti, era diventato un’ulteriore minaccia per il Venerabile, per il suo amico Federico Umberto D’Amato e per i neofascisti coinvolti. Disperato, in bancarotta, inseguito da un mandato di cattura, Calvi avrebbe potuto rivelare i tanti suoi segreti. Nelle prossime udienze del processo bolognese saranno resi pubblici i nuovi elementi raccolti dall’accusa.
Intanto Pazienza ribadisce la sua linea. “Quando Gelli chiese di conoscermi, io gli risposi con una sola parola: vaffanculo. Non avevo niente da spartire con lui e lui sapeva che io ero un suo nemico. È vero che ero a Londra, dieci giorni prima della morte di Calvi, ma ci sono rimasto meno di 24 ore, solo per prendere il Concorde per New York. In precedenza avevo fatto il consulente di Calvi, per lui avevo scritto un memorandum nell’aprile 1981. Quanto a Federico Umberto D’Amato, lo sentivo spesso. Quando scoppiò lo scandalo P2, nella primavera 1981, mi chiese di aiutarlo a dar diventare il magistrato Domenico Sica capo del Sisde, il nuovo servizio segreto civile. Fu D’Amato a informarmi subito che Calvi era sparito”. (Il Fatto quotidiano, 6 giugno 2021)
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