Le Carré, la guerra di spie e le stragi italiane
La scomparsa di un autore di grande successo come John Le Carré ci fa riflettere non soltanto sulla narrazione, ma anche sulla realtà. E sulla nostra storia recente. Mago della spy story, incasellato nella letteratura di genere, Le Carré è invece uno scrittore senza aggettivi, che racconta la vita, gli uomini e il mondo, seppure partendo dal suo particolare punto di osservazione, che è quello di chi è stato funzionario del Foreign Office, diplomatico nella Germania della Guerra fredda, agente segreto dell’Mi6.
Di genere è Ian Fleming, l’inventore di 007 (comunque ottimo, almeno per i suoi Martini). Le Carré invece non contrappone eroi glam dell’Occidente ad antagonisti cattivissimi del blocco comunista. Racconta uno scontro in cui non ci sono, come in certi western americani, “i buoni con il cappello bianco e i cattivi con il cappello nero” (l’immagine è dello scrittore Tullio Avoledo). I suoi personaggi combattono dalla parte del “bene”, ma ci mostrano che nello scontro con il “male” i metodi e il cinismo degli uni finiscono per diventare indistinguibili da quelli degli altri. La “guerra non ortodossa” rende tremendamente simili i contendenti.
Ebbene, se c’è un posto, in Europa, dove quel conflitto a bassa intensità si è pienamente dispiegato, è l’Italia. È qui che la guerra di spie, la low intensity war ha fatto più morti e feriti, tra pianificazioni eversive e strategie stragiste, utilizzo di logge segrete e di gruppi neonazisti. La presenza di forze occulte, di trame sotterranee, di poteri segreti non è solo roba da romanzo: è realtà dell’Europa e ancor più dell’Italia negli anni della Guerra fredda.
Sarebbe bello se chi vede e apprezza la complessità dello scontro, irriducibile alla contrapposizione buoni/cattivi, nelle pagine di Le Carré, lo vedesse e ammettesse anche nella storia reale del nostro Paese. Chi ha agitato le nobili bandiere della libertà e dell’Occidente ha usato metodi tali, e assoldato un tale personale, da infliggere ferite profonde alla democrazia che diceva di difendere.
Lo ripetiamo nei giorni in cui ricordiamo Pinelli e il primo atto in Italia della guerra segreta, in piazza Fontana. E basta, please, con il trucco linguistico dei “servizi segreti deviati”: come Le Carré sapeva, i servizi realizzano il loro compito d’istituto, magari utilizzando, per le “azioni sporche”, agenti coperti o strutture irregolari.
Anche dopo la caduta del Muro, i “buoni” hanno continuato il vecchio gioco. Le Carré lo racconta in A most wanted man (in italiano Yssa il buono, 2008), spietata critica delle extraordinary renditions americane contro i terroristi islamici, che anche l’Italia ha conosciuto, riuscendo – unico Paese al mondo – a processare i rapitori Cia (e le loro sponde italiane) dell’imam Abu Omar, poi salvati dal segreto di Stato. E nel 2001 aveva raccontato in The constant gardener (Il giardiniere tenace) la sporca guerra delle multinazionali farmaceutiche. Le Carré non era rimasto orfano della Guerra fredda.
E tutto ciò è solo narrativa di genere? Ancora oggi, la Biblioteca nazionale centrale di Roma (che fa riferimento al ministero dei Beni culturali) celebra come “statista” Pino Rauti, fondatore di Ordine nuovo, il gruppo neonazista che ha attuato (lo dicono sentenze definitive) le stragi di piazza Fontana e di Brescia.
E Antonio Carioti sulla Lettura del Corriere della sera (lo segnala Benedetta Tobagi) recensisce con una vaghezza che diventa complice un saggio di Sandro Forte, per il quale Ordine nuovo è semplicemente “il maggior laboratorio politico della destra radicale dal Dopoguerra”: dimenticando Carlo Digilio reo confesso per piazza Fontana, Carlo Maria Maggi condannato per la strage di Brescia.
Sì, ci vorrebbe più memoria e, magari, un Le Carré italiano per raccontare i giochi di spie e i nostri servizi segreti (non deviati).