Eni, il Tribunale dice no. Non sarà ascoltato l’uomo del depistaggio
Il Tribunale che a Milano sta giudicando Eni, accusata di corruzione internazionale in Nigeria, ha detto l’ultimo no ai pm Fabio De Pasquale e Sergio Spadaro. Chiedevano di sentire in aula due avvocati: Piero Amara, per anni legale esterno dell’Eni, da cui ha ricevuto compensi per 13,5 milioni di euro e che poi, dopo essere stato arrestato nel 2018, ha patteggiato 3 anni di pena per altre vicende di corruzione; e Leopoldo Marchese, in grado di confermare le dichiarazioni di Amara. La testimonianza dei due legali è stata ritenuta superflua e non decisiva, ha risposto il presidente Marco Tremolada, che ha dichiarato la fine della fase processuale in cui si acquisiscono le prove. Il 25 marzo inizierà la requisitoria dell’accusa.
Per i pm le due testimonianze erano invece essenziali. Perché mentre alla luce del sole si svolgeva questo processo, sotterraneamente è successa una cosa mai vista: la più grande e strategica delle aziende italiane, l’Eni, ha messo in azione una gigantesca macchina per inquinare le prove, depistare le indagini, comprare i testimoni d’accusa, perfino dossierare, pedinare e intercettare i pm. Questa almeno è la convinzione della Procura di Milano, confermata dalle dichiarazioni di Amara, che dopo essere stato arrestato e poi “scaricato” dall’Eni ha deciso di raccontare il suo ruolo nella grande macchina dell’inquinamento probatorio del processo Eni Nigeria, attivata – dice – dai vertici della compagnia petrolifera: Claudio Descalzi e Claudio Granata.
Le dichiarazioni di Amara non attengono a questo processo e alle accuse di corruzione internazionale, ma semmai al processo che i pm Laura Pedio e Paolo Storari stanno preparando sul “complotto” Eni – hanno obiettato le difese, guidate da Nerio Diodà (legale di Eni) e Paola Severino (legale di Descalzi). Non c’è stato del resto alcun inquinamento in questo processo – continuano le difese – perché il grande accusatore su cui sarebbero state fatte pressioni, Vincenzo Armanna, ha mantenuto in aula le sue accuse ai vertici Eni.
Secondo i pm, la compagnia avrebbe pagato nel 2011 una mega-tangente di 1 miliardo e 92 milioni di dollari per ottenere in Nigeria, insieme a Shell, l’immenso campo petrolifero Opl 245. La pubblica accusa aveva presentato 14 punti per sostenere la richiesta di sentire Amara, quattro per Marchese. Per dimostrare “la grave e continua interferenza” di Eni nel processo sulla presunta corruzione internazionale in Nigeria, per far ritrattare al teste Armanna le accuse all’amministratore delegato Descalzi, per eliminare prove a carico dei vertici della compagnia.
Le dichiarazioni di Amara sono “assolutamente necessarie” in questo processo, secondo il pm De Pasquale, che chiede di acquisirle solo ora perché Amara ha cominciato a collaborare nel novembre 2019, con dichiarazioni che soltanto ora sono disponibili e che non potevano essere prodotte prima. In questo processo: perché è in questo processo che la società Eni è accusata, in forza della legge 231 sulla responsabilità amministrativa delle società, di non aver predisposto modelli di organizzazione e di gestione idonei a prevenire reati come quello di corruzione internazionale. E perché è in questo processo che sono state tentate manovre d’inquinamento delle prove che dimostrano – se provate – che gli imputati avevano qualcosa da nascondere: l’imputato innocente non ha alcun interesse a inquinare il processo, comprare testimoni, pedinare i pm.
I 14 punti presentati da De Pasquale e Spadaro per tentare di convincere – invano – il Tribunale a sentire Amara sono pesantissimi. Riguardano 14 fatti che riscrivono la storia dell’inchiesta su Olp 245. Tra questi: Granata nel 2014 fornì ad Amara un cellulare per le telefonate “riservate”, gli chiese di registrate il testimone Armanna “per ricattarlo” e “comprarlo”; e partirono “interferenze della difesa Eni e di taluni imputati nei confronti dei magistrati degli uffici giudiziari milanesi con riferimenti al processo Opl 245”.