Non accadrà. A cambiare il corso della storia sono le pallottole del giovane killer dal passo ondeggiante, che nessun pentito conosce, di cui nessun mafioso di Cosa nostra sa alcunché. Per questo, Giovanni Falcone, che indagò a lungo sul delitto dell’Epifania, si era convinto che quel giorno fosse scattata un’alleanza tra mafia degli affari ed eversione politica. Seguì la “pista nera”, convinto che per quell’omicidio fossero scattate relazioni “che potrebbero riscrivere la storia del Paese”. Mandò a giudizio un killer “dal passo ballonzolante”: Giusva Fioravanti, capo dei Nuclei armati rivoluzionari (Nar), insieme al suo camerata Gilberto Cavallini. Proprio per la sua camminata, Giusva era chiamato “l’orso”. Entrambi sono stati definitivamente assolti.
Oggi una nuova indagine, aperta nel gennaio 2018 a Palermo da Salvatore De Luca e Roberto Tartaglia, ha ripreso a battere la “pista nera”. Tartaglia, ora consulente della Commissione parlamentare antimafia, è convinto che sia stato “un delitto di convergenza tra mafia ed eversione”. Eseguito con tutta probabilità da un killer esterno a Cosa nostra. È vero che Mattarella, da presidente della Regione, aveva assunto ad interim l’assessorato ai Lavori pubblici e disposto ispezioni per verificare la regolarità di alcune gare d’appalto, in particolare quelle per la costruzione di sei edifici scolastici a Palermo. Le avevano vinte imprese legate alla Cosa nostra di Bontate, Spatola, Inzerillo. Due giorni dopo il delitto dell’Epifania, il Comune di Palermo smentisce i risultati delle ispezioni imposte da Mattarella e dichiara che le gare sono regolari.
“Ma Piersanti era un presidente di Regione già senza maggioranza”, spiega Tartaglia, “che avrebbe presto lasciato Palermo. Era invece destinato a diventare, nel giro di un mese, vicepresidente nazionale della Dc, con il progetto di riprendere la politica di Moro di apertura al Pci. La sua uccisione, dunque, frena il cambiamento in Sicilia, ma cambia soprattutto il prevedibile corso politico nazionale”. Falcone seguì con determinazione la “pista nera”: interrogò Cristiano Fioravanti, il quale dichiarò che a sparare al leader della Dc siciliana era stato il fratello Giusva, affiancato da Cavallini; e fece addirittura una trentina di interrogatori ad Alberto Volo, fascista vicino ai Nar e a Terza posizione, che gli raccontò che l’eliminazione di Mattarella era stata voluta da Licio Gelli, il capo della loggia P2, per fermare l’apertura a sinistra.
Come ricostruisce Giuliano Turone nel suo Italia occulta (Chiarelettere), Piersanti, subito dopo l’omicidio del magistrato Cesare Terranova del settembre 1979, corre a Roma a parlare con l’allora ministro dell’Interno, Virginio Rognoni, a cui annuncia la volontà di bloccare alcuni appalti per tagliare i legami tra politica e mafia, ma esprime soprattutto le sue preoccupazioni per il clima pesante dentro la Dc siciliana. Da una parte, l’ex sindaco di Palermo Vito Ciancimino, uomo di “discussa, ambigua e dubbia personalità”, stava facendo pressioni per ottenere “un reinserimento a un livello di piena utilizzazione politica all’interno della Democrazia cristiana”. Dall’altra, erano appena avvenuti (nel luglio e nel settembre 1979) due omicidi eccellenti di mafia, con le uccisioni del commissario Boris Giuliano e del giudice Terranova.
Raccontando questo film nero a Rognoni, Mattarella dimostra di essere consapevole dei pericoli che stava affrontando. Per gli appalti che voleva bloccare a Palermo, ma più in generale per le nuove alleanze che annusava tra Cosa nostra e i piani alti della politica. Tornato a Palermo da Roma, dice alla sua collaboratrice, Maria Trizzino: “Se mi dovesse succedere qualcosa, si ricordi di questo incontro romano”. Affari ed eversione. Già la relazione dell’Alto commissariato antimafia stesa nel 1989 dal magistrato Loris D’Ambrosio mette in evidenza l’anomalia del delitto Mattarella: “Non si tratta di un omicidio di mafia, ma di un omicidio di politica mafiosa”.
Inquietante anche il ruolo che Giulio Andreotti gioca in questa partita mortale. Il leader della corrente che aveva stretto legami con Cosa nostra va due volte in Sicilia a parlare con il capo dei capi, Stefano Bontate, ancora non esautorato e ucciso dai corleonesi di Totò Riina. Nel primo incontro, Bontate si lamenta con lui proprio di questo Mattarella che non sta ai patti e vuole smontare la proficua collaborazione aperta tra i boss e la politica palermitana. È un’avvertimento. Quando torna in Sicilia dopo l’assassinio del suo compagno di partito, un ineffabile Andreotti fa le sue rimostranze a Bontate, come dopo un piccolo sgarbo, un affare andato male. Non una denuncia, non una parola ai magistrati.