Chiudi la Resistenza nella Piramide
Una caratteristica del tanto decantato “Modello Milano” è la pillola indorata. Non sapete ancora che cos’è il “Modello Milano”? Siete out, non capite nulla di glam e di brand, siete tagliati fuori dal place to be. Il “Modello Milano” è la più strutturata e fortunata operazione di marketing politico dai tempi della “Milano da bere”.
È la narrazione (storytelling) di una città in cui tutto va bene, le buche nelle strade sono una scelta smart di design urbano, i metrò che frenano a caso facendo andare a gambe all’aria i passeggeri sono una performance metropolitana, la filovia che passa con il rosso e, investita da un mezzo della nettezza urbana, si trasforma in una inconsapevole bomba dell’Isis è un teaser di qualche serie tv, i grattacieli costruiti dappertutto nella città italiana con maggior consumo di suolo sono una simpatica bolla immobiliare che finché non scoppia “crea valore”, l’aria più inquinata del Paese è una opportunity da brandizzare e vendere al mondo intero.
Le stesse cose, a Roma, sono (giustamente) sciagure. Sotto il nostro cielo padano diventano ricchezze e idee geniali, come lo zafferano un tempo usato per colorare il vetro che, caduto per sbaglio nella pentola, è diventato il magico risotto alla milanese.
Ebbene, in questo meraviglioso “Modello Milano”, che il sindaco-Pangloss racconta e decanta come il migliore dei mondi possibili, si pratica – dicevamo – il metodo infallibile per far accettare ogni schifezza: indorare la pillola o, se preferite, addolcire la supposta. Vuoi cementificare un milione e passa di metri quadri in sette aree che un tempo servivano come scali ferroviari, arricchendo Fs e Manfredi Catella? Crei dei rendering dove tutto è bello e vedi solo un “fiume verde” che pare il bosco di Biancaneve e i sette nani.
Devi dare un senso a un terreno stretto tra due autostrade e un cimitero, per non mostrare di aver buttato miliardi per impiantarci un Expo? Imponi all’Università Statale di trasferirci le facoltà scientifiche e lo vendi sul mercato immobiliare come un polo scientifico fighissimo, uno Human Technopole. Vuoi vendere a Microsoft l’ennesimo palazzo per uffici in città? Chiami le solite archistar – questa volta Herzog e De Meuron – che disegnano un paio di piramidi e in quella più piccola ci piazzi la Fondazione Feltrinelli, così hai realizzato non un’operazione immobiliare, ma una raffinata azione culturale.
L’ultima impresa è la più chic and freak. Con brivido antifascista. Vuoi completare il progetto di Herzog e De Meuron con una terza piramide, sul lato opposto di quella venduta a Microsoft in piazza Baiamonti? Annunci che dentro ci piazzerai il Museo della Resistenza. A questo punto nessuno può resistere. È una bellissima iniziativa. È un investimento straordinario nella materia più preziosa, la memoria. Peccato, però, farlo proprio lì: dove i milanesi avevano chiesto di recuperare l’area un tempo occupata da una pompa di benzina per farne un piccolo parco verde.
I cittadini, interpellati dalla giunta, avevano detto: no alla piramide, vogliamo il parco. Il comitato “contro la piramide” aveva raccolto 1.400 firme. Il consigliere comunale Carlo Monguzzi (uno del Pd, mica un grillino) aveva detto: “Dobbiamo dare un segnale forte, meno cemento e più alberi. Abbiamo l’occasione di passare alla storia come quelli che hanno spezzato in due una piramide di cemento e al suo posto piantato alberi”.
Invece niente. Bocciata la proposta di Monguzzi e di Milly Moratti (altra pericolosa dem verde), s’impone la piramide. Ma la si indora con il Museo della Resistenza. Bello. Bellissimo. Ma non è che così il sindaco-Pangloss finirà per far odiare, ai cittadini che volevano il parco, perfino la Resistenza?