Ilva. La storia dei Riva e l’intervento della Procura milanese che ora spaventa Mittal
La Procura di Milano che oggi interviene sull’Ilva gestita da Arcelor Mittal, cominciando a snocciolare i reati che potrebbero essere stati commessi, conosce bene l’impianto di Taranto e la sua storia. È già intervenuta sulla gestione precedente dell’Ilva, quella del Gruppo Riva.
La storia inizia nel 2012, quando lo stabilimento viene sequestrato. Allora a intervenire è la procura di Taranto. Il giudice per le indagini preliminari scrive che la fabbrica è fonte “di malattia e di morte”. Contesta i reati di inquinamento e danno ambientale. Dispone l’arresto di Emilio Riva e dei suoi figli, Nicola e Fabio. Quest’ultimo è all’estero e resta latitante fino al 2015.
Nel frattempo si muove anche la Procura di Milano, perché a Milano ha la sua sede societaria il Gruppo Riva (come pure la Arcelor Mittal italiana). L’ufficio del procuratore della Repubblica Francesco Greco vuole mettere il naso nella gestione dell’azienda e negli eventuali reati societari commessi dal gruppo e dai suoi proprietari.
Era un “rotamatt”, Emilio Riva: un raccoglitore di rottami. Aveva iniziato l’attività nel dopoguerra e in qualche decennio era diventato il quarto produttore di acciaio in Europa. Dalla sua villa di Malnate, non lontano da Varese, guidava un gruppo con 10 miliardi di euro di fatturato, 30 mila dipendenti, 38 stabilimenti in giro per il mondo. Con ricavi che consentivano una certa generosità: è stato Emilio a finanziare i viaggi apostolici nei cinque continenti di Papa Wojtyla, versando i generosi contributi direttamente nelle mani del papa polacco. Anche la politica ha beneficiato della generosità.
L’acciaieria di Taranto si aggiunge alla sua ricca collezione quando l’Italsider, controllata dallo Stato, arriva sull’orlo del fallimento. Riva la fa ripartire, ma fa ripartire anche i gravissimi danni all’ambiente e alla salute provocati dalle lavorazioni. Le ricerche mediche segnalano nell’area della fabbrica alti tassi di malattie tumorali e un’alta incidenza di tumori infantili. Per questo intervengono i magistrati di Taranto, con l’arresto dei Riva e il sequestro degli impianti. Nel giugno 2013 l’Ilva viene commissariata dal governo. Subito dopo arriva la Procura di Milano, che compie le sue verifiche e nel gennaio 2015 chiede l’intervento del Tribunale, che accerta l’insolvenza del gruppo Riva e lo colloca in amministrazione straordinaria.
La Procura milanese inizia la caccia al tesoro. Le casse dell’Ilva sono vuote, ma i conti all’estero dei Riva sono pieni. La Procura e la Guardia di finanza trovano i soldi della famiglia in Svizzera. Greco chiede il sequestro di 1 miliardo e 230 milioni di euro. Nel 2017 i soldi sono resi disponibili e 1 miliardo circa viene destinato al risanamento ambientale dello stabilimento di Taranto, alla sua decontaminazione e bonifica.
Oggi, due anni dopo, della cifra sequestrata sono stati spesi o almeno allocati 635 milioni, impiegati o da impiegare per la decontaminazione, la gestione e il trattamento di acque e rifiuti e la bonifica e messa in sicurezza delle discariche. In cassa sono rimasti circa 450 milioni, che dovranno essere destinati ad altri interventi di bonifica dell’area. A Taranto intanto, davanti alla Corte d’assise, parte il processo per disastro ambientale chiamato “Ambiente svenduto”, con imputati Fabio Riva e ad altre 46 persone e società. Contestata anche la corruzione in atti giudiziari, per una tangente che sarebbe stata versata a un consulente della Procura.
Mentre a Taranto si procede per i reati ambientali, a Milano si contesta alla famiglia Riva la bancarotta. Esce presto di scena il patriarca Emilio, che muore a 88 anni nell’aprile 2014. Suo fratello Adriano patteggia 2 anni e 6 mesi di pena, nel maggio 2017, e raggiunge un accordo con la Procura con cui rinuncia a tornare in possesso del tesoro sequestrato e poi fatto rientrare in Italia.
Restano i figli di Emilio, Fabio e Nicola. I due tentano un accordo nel febbraio 2017 e poi ancora nell’ottobre 2017: chiedono di patteggiare una pena di 5 anni (Fabio) e 2 (Nicola). Il giudice dell’udienza preliminare Chiara Valori respinge la richiesta, giudicando “incongrua” la pena a fronte della bancarotta contestata. Solo nel febbraio 2018 a Nicola è concesso il patteggiamento: a 3 anni di carcere. Fabio Riva viene invece processato con rito abbreviato dal giudice milanese Lidia Castellucci.
L’accusa, rappresentata dai pm Stefano Civardi e Mauro Clerici, chiede 5 anni di carcere. Nel luglio 2019, la sentenza: l’imputato è assolto dal reato di bancarotta perché il fatto non sussiste. Soddisfatti i suoi avvocati, Salvatore Scuto e Gian Paolo Del Sasso. Incredula la pubblica accusa, che in attesa delle motivazioni (ancora non arrivate) annuncia che ricorrerà in appello. Intanto, nel 2018, a Taranto è arrivata la Arcelor Mittal. Oggi l’ultima crisi. E la Procura di Milano torna a occuparsi dell’Ilva.