Piazza Fontana e le altre stragi. Ora sappiamo
Basta con la retorica dei “misteri d’Italia”. Basta con la notte in cui tutto è nero, tutto è buio, tutto è possibile, dunque niente è certo. Basta con il piagnisteo sulle verità negate, che da una parte impedisce di mettere in fila le cose accertate e dall’altra permette di produrre le teorie più strampalate. È vero: cinquant’anni dopo, non abbiamo una sentenza che dica chi ha messo la bomba in piazza Fontana. Molte verità restano nascoste, i depistaggi hanno raggiunto il loro sporco obiettivo. Ma se Pier Paolo Pasolini diceva negli anni Settanta: “Io so… ma non ho le prove”, noi oggi possiamo dire: “Noi sappiamo. Abbiamo indizi e anche prove che ci dicono chi mise le bombe”.
La strage di piazza Fontana del 12 dicembre 1969 è stata compiuta dal gruppo fascista e filonazista Ordine nuovo, ben conosciuto e ben collegato con servizi segreti e apparati dello Stato, oltre che con strutture d’intelligence Usa. I responsabili dell’attentato sono Franco Freda e Giovanni Ventura, come afferma una sentenza della Cassazione del 2005, anche se non possono più essere processati e condannati perché definitivamente assolti per lo stesso reato nel 1987. L’unico di cui è stata riconosciuta processualmente la responsabilità è Carlo Digilio, militante di Ordine nuovo e informatore dei servizi Usa con il nome di “Erodoto”, che ha confessato il suo ruolo nella preparazione degli attentati del 12 dicembre e indicato – seppur con elementi non ritenuti sufficienti a condannare – i suoi complici.
Le inchieste e i processi hanno certificato che la mano che è intervenuta in piazza Fontana è la stessa che, nei mesi precedenti, ha preparato il botto finale con tante piccole bombe sui treni, alla stazione centrale di Milano, alla Fiera campionaria… Gli anarchici che erano stati subito indicati come colpevoli di quegli attentati preparatori sono stati assolti. Le sentenze dichiarano invece colpevoli i neri del gruppo di Freda e Ventura, militanti di Ordine nuovo.
I dirigenti di Ordine nuovo attivi in quegli anni sono il fondatore Pino Rauti (indagato per strage, ma poi uscito dall’indagine) e il capo del gruppo del Triveneto Carlo Maria Maggi (processato, ma poi assolto). I militanti più in vista del gruppo sono Delfo Zorzi, Martino Siciliano, Massimiliano Fachini, Marcello Soffiati. Tutti indagati, ma infine prosciolti.
Responsabile di Avanguardia nazionale, il gruppo fascista e filonazista accusato di aver organizzato gli attentati a Roma contemporanei a quelli di Milano in piazza Fontana e alla Banca commerciale, è Stefano Delle Chiaie, recentemente scomparso. Un suo collaboratore, Mario Merlino, si era infiltrato nel gruppo anarchico di Pietro Valpreda.
I responsabili degli apparati di Stato negli anni della preparazione della strage e delle indagini successive sono l’ammiraglio Eugenio Henke e il generale Vito Miceli (in successione direttori del Sid, il servizio segreto militare), il colonnello Gianadelio Maletti (ufficiale di Stato maggiore della Difesa, in seguito capo del controspionaggio del Sid), il capitano Antonio Labruna (ufficiale del Sid) e i dirigenti dell’Ufficio affari riservati del ministero dell’Interno Federico Umberto D’Amato, Elvio Catenacci, Silvano Russomanno.
I politici che avevano il dovere di controllare gli apparati erano in quegli anni i presidenti del Consiglio Mariano Rumor, Emilio Colombo, Giulio Andreotti, il ministro dell’Interno Franco Restivo, i ministri della Difesa Luigi Gui e Mario Tanassi.
Dunque sappiamo. Le stesse sentenze che, nell’ultima pagina, assolvono, nelle centinaia di pagine precedenti raccontano la storia vera e terribile di una guerra feroce, l’ultima guerra italiana. Una guerra “psicologica” e “non ortodossa”, come la definiscono i manuali di strategia militare. Una guerra assimetrica combattuta tra il 1969 e il 1980: da una parte un esercito segreto, senza divise e senza bandiere, che riteneva di combattere contro il Male, ovvero il comunismo nel Paese dell’Occidente posto al confine tra i due blocchi; dall’altra parte cittadini inermi con l’unica colpa di trovarsi al momento sbagliato nel luogo sbagliato, una banca, un treno, una piazza, una stazione…
In 15 anni, tra il 1969 e il 1984, in Italia sono avvenute otto stragi politiche dalle caratteristiche simili: piazza Fontana (12 dicembre 1969), stazione di Gioia Tauro (22 luglio 1970), Peteano (31 maggio 1972), Questura di Milano (17 maggio 1973), piazza della Loggia a Brescia (28 maggio 1974), Italicus (4 agosto 1974), stazione di Bologna (2 agosto 1980), treno di Natale 904 (23 dicembre 1984).
Centocinquanta i morti, oltre seicento i feriti. Tutte le stragi (con qualche differenza solo per quella del 1984, che una sentenza definitiva giudica promossa da Cosa nostra) hanno caratteristiche comuni: per tutte, i responsabili sono stati cercati nei gruppi dell’estrema destra; in tutte, le indagini sono state inquinate dai depistaggi da parte di organismi dello Stato; tutte sono rimaste per molti anni senza spiegazioni ufficiali, senza colpevoli, senza esecutori, senza mandanti. Ancora oggi, quasi tutte sono senza colpevoli, esecutori, mandanti.
Protezioni, coperture e depistaggi istituzionali sono scattati anche per altri episodi, che hanno aggiunto altri morti e feriti: assassinii eccellenti, azioni del terrorismo nero, colpi di Stato tentati o minacciati, piani eversivi, attentati ai treni e ad altri impianti. Rallentate e depistate anche le indagini su alcune organizzazioni segrete, sospettate di fornire copertura e personale alle manovre eversive: dalla loggia P2 alla rete Stay Behind in Italia (Gladio).
Hanno trovato soluzione processuale definitiva le stragi di Peteano, di Bologna e di Brescia. Per i carabinieri saltati in aria a Peteano si è autoaccusato Vincenzo Vinciguerra, militante di Ordine nuovo di Udine. Una sentenza definitiva ha condannato alcuni degli esecutori della strage di Bologna: Giusva Fioravanti, Francesca Mambro, Luigi Ciavardini. E ora è sotto processo Gilberto Cavallini. Poi un verdetto storico ha indicato alcuni dei responsabili di quella di Brescia, certificando che è entrato in azione lo stesso gruppo di piazza Fontana: condannato definitivo Carlo Maria Maggi, il medico veneziano a capo di Ordine nuovo nel Triveneto.
Anche quando sono definitive, le sentenze non sono complete: abbiamo detto che mancano i mandanti, alcuni degli esecutori, molti dei complici; eppure, nonostante questo, il disegno è ormai chiaro. Uno dei protagonisti di questa storia, l’ex magistrato Libero Mancuso che indagò sulla strage di Bologna, ripete: “Ci avete sconfitti, ma sappiamo chi siete”.
Piazza Fontana è dove tutto iniziò. C’era stato il ’68 degli studenti. Era iniziato il ’69 degli operai. Ci voleva uno shock per raddrizzare una situazione che stava precipitando. Creare il disordine perché la gente chiedesse il ritorno all’ordine. Una strage rossa avrebbe provocato la proclamazione dello stato d’emergenza, avrebbe sollecitato un intervento delle forze armate. I gruppi che entrano in azione puntano al golpe.
Ma le cose non vanno come avevano sperato. Il giorno dei funerali delle vittime di piazza Fontana, in piazza Duomo non c’è una folla isterica che chiede la svolta d’ordine. Ci sono migliaia di persone composte, attonite, silenziose. Ci sono gli operai delle grandi fabbriche di Milano e di Sesto San Giovanni. Vogliono capire. Vogliono difendere la democrazia. Chiedono non più ordine, ma verità e giustizia. Chiedono, semmai, più diritti: sul posto di lavoro e nella società.
Anche ai piani alti qualcosa non gira come doveva girare. I golpisti contano sul fatto che, dopo il botto, il presidente del Consiglio proclami lo stato d’emergenza. Ma il democristiano Mariano Rumor non lo fa. In basso, va anche peggio: sui muri di Milano e d’Italia compaiono scritte che dicono: “Valpreda è innocente, la strage è di Stato”.
Una parte dell’opinione pubblica non crede alle verità preconfezionate, alle veline della polizia, al colpevole designato – Pietro Valpreda, anarchico – e al complice – Pino Pinelli, anarchico – che vola di notte dalla finestra del quarto piano della questura di Milano. Si moltiplicano le inchieste, i libri, gli articoli di giornale che scavano e cercano la verità. Alcuni giornalisti non rinunciano a fare il loro mestiere: Camilla Cederna, Corrado Stajano, Marco Fini, Giorgio Bocca… E Marco Nozza, a cui viene affibbiato un nomignolo dispregiativo che lui si appunta al petto come una medaglia: “pistarolo”.
I servizi segreti, intanto, fanno il loro lavoro: depistano, sottraggono prove, inquinano le indagini, fanno sparire testimoni. “Deviati”? No: fedeli al loro compito d’istituto e obbedienti ai loro capi e alle loro alleanze internazionali. Per questo dopo piazza Fontana portano all’estero, con operazioni d’“esfiltrazione”, il bidello di Padova Marco Pozzan, testimone pericoloso, che interrogato dal giudice Giancarlo Stiz sta per cedere e mettere nei guai i camerati di Ordine nuovo; e l’agente dei servizi Guido Giannettini, giornalista fascista, che viene coperto, aiutato, stipendiato dallo Stato anche mentre è latitante e ricercato.
Per capire che cosa succede in Italia, a partire dal 12 dicembre 1969, bisogna fare un volo negli Stati Uniti. Il 12 marzo 1947 il presidente degli Usa Harry Truman aveva pronunciato di fronte al Congresso il celebre discorso sulla disponibilità degli Stati Uniti a intervenire in qualsiasi zona del mondo minacciata dai sovietici e intossicata dal comunismo. La “dottrina Truman” per l’Italia viene declinata, in modi più riservati, nei successivi documenti del National Security Council (Nsc).
Nel documento Nsc numero 1/2 del 10 febbraio 1948, il governo degli Stati Uniti, nell’ipotesi che l’Italia cada in mani comuniste per effetto di un’invasione sovietica o di un’insurrezione interna, prevede l’immediato dispiegamento di forze militari Usa in Sicilia o in Sardegna. Nel successivo Nsc (il numero 1/3 dell’8 marzo 1948, alla vigilia delle cruciali elezioni italiane del 18 aprile) si pone direttamente il problema della possibile conquista del potere dei comunisti “attraverso sistemi legali”: a questa eventualità gli Stati Uniti devono reagire immediatamente, anche fornendo “assistenza militare e finanziaria alla base anticomunista italiana”.
Nella direttiva Nsc 10/2 del 18 giugno 1948 (a pericolo scampato: la Dc ha appena battuto il Fronte popolare) si afferma che comunque le attività ufficiali all’estero saranno affiancate da covert operations, operazioni coperte da cui non deve essere possibile risalire alla responsabilità del governo degli Stati Uniti.
Un delicato documento Nsc del 1951 (il numero 67/3 del 5 gennaio) è disponibile ancor oggi soltanto in una redazione pesantemente mutilata dalla censura; vi si prevedono comunque iniziative degli Stati Uniti “mirate a impedire la presa del potere da parte dei comunisti”. Successivamente (Nsc 5412 del 15 marzo 1954) si stabilisce la creazione di Stay Behind assets: sono le strutture della pianificazione segreta che in Italia sarà chiamata Gladio.
Nel maggio 1965, un istituto di studi strategici finanziato dagli ambienti militari e dai servizi segreti italiani organizza il celebre convegno al Parco dei principi, a Roma, che teorizza l’inizio della “guerra rivoluzionaria” o “non ortodossa”. Si indica come nuovo nemico la “distensione”, il “dialogo”, la “coesistenza” fra i due blocchi, che si andavano affermando in quegli anni.
La terza guerra mondiale, sostengono invece i promotori del convegno, era già iniziata, seppure non nelle forme tradizionali del conflitto dichiarato: il fronte comunista era all’opera con mezzi politici e psicologici. A questi bisognava contrapporsi, subito, con mezzi adeguati, sullo stesso terreno. Fra i partecipanti al convegno vi erano molti appartenenti alle gerarchie militari, accanto ad alcuni dei protagonisti, a vario titolo, della successiva stagione di bombe e depistaggi: Guido Giannettini, Pino Rauti, Stefano Delle Chiaie, Mario Merlino.
Negli anni successivi, si passa dalla teoria ai fatti. E alle bombe. Il 12 dicembre 1969, il primo atto della guerra segreta. Ora che il mondo è cambiato, che il blocco comunista è imploso, che mezzo secolo è passato, non abbiamo ancora tutta la verità, perché è troppo orribile per ammetterla. Ma il disegno è chiaro. Ormai è storia. Ormai sappiamo.
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