AFFARI

Giuseppe Orsi, le tangenti indiane di Finmeccanica

Giuseppe Orsi, le tangenti indiane di Finmeccanica

Sapeva delle tangenti. Disse sì ai pagamenti. Provò a depistare le indagini anche quando era già in carcere. L’ex amministratore delegato di Finmeccanica, Giuseppe Orsi, “diede il proprio assenso” al versamento di mezzette per vendere nel 2005 all’India 12 elicotteri Agusta: una fornitura da 560 milioni. Lo ribadiscono le motivazioni della sentenza d’appello che il 7 aprile 2016 ha condannato Orsi a 4 anni e 6 mesi di carcere per corruzione e false fatture, insieme a Bruno Spagnolini, ex amministratore delegato di Agusta Westland.

Gli elicotteri erano stati venduti al governo indiano: non senza aver prima oliato le ruote, pagando esponenti militari dell’amministrazione. Al centro della vicenda, la famiglia del capo di stato maggiore dell’aereonautica indiana, Sashi Tyagi. Il processo era nato da un’indagine dei pm di Napoli Vincenzo Piscitelli e Henry John Woodcock, poi trasmessa per competenza territoriale a Busto Arsizio, dove l’accusa era stata sostenuta dal pm Eugenio Fusco.

A Busto, in primo grado, Orsi e Spagnolini sono stati condannati a 2 anni di reclusione per false fatture, ma assolti dall’accusa di corruzione internazionale. In appello, a Milano, è arrivata la condanna per entrambe le imputazioni, con pena più che raddoppiata. È stata anche decisa la confisca complessiva agli imputati di 7,5 milioni di euro e, per Orsi, la revoca della sospensione condizionale della pena. Secondo la sentenza della Corte d’appello, Orsi approvò i “versamenti in contanti” ai fratelli indiani Tyagi e dispose il pagamento di “tangenti coperte da fatture inesistenti”.

Per questo entrò in azione una società tunisina, la Ids Tunisia, che servì a creare, attraverso operazioni inesistenti con Agusta Westland, la provvista di denaro all’estero per pagare le tangenti. Il “rapporto tra Agusta Westland (Aw) e la società tunisina Ids Tunisia” evidenzia “plurime anomalie”, per “le carenze documentali riscontrate, la contraddittorietà e incongruenza, quando non la palese falsità delle giustificazioni addotte dagli imputati”.

Nei rapporti d’affari tra le due società, “il divario tra le risorse previste a termini di contratto e quelle effettivamente dispiegate sono circostanze che univocamente concorrono a far ritenere provato l’assunto accusatorio, secondo cui il ricorso a fonti esterne da parte di Aw per lo svolgimento di prestazioni ingegneristiche non fu dettato da un effettivo fabbisogno aziendale”.

Il contratto con Ids Tunisia, insomma, “non aveva una ragione economica e la sua prevalente utilità consisteva nel dare veste formale agli ingenti trasferimenti di denaro su conti correnti ubicati a Mauritius, onde creare una provvista occulta e protetta, destinata al pagamento del prezzo della corruzione”. Furono pagati gli indiani della famiglia Tyagi, ma anche il mediatore dei versamenti in Svizzera, il finanziere Guido Haschke, compensato per la sua mediazione.

“Orsi tentò di depistare le indagini”, sostengono i giudici d’appello. La sentenza ricorda infatti “le iniziative degli imputati intese a disperdere e inquinare le prove, e precostituirsi elementi di prova favorevoli”. Era il marzo 2014 quando Orsi, già “ristretto nel carcere di Busto Arsizio”, in una lettera chiedeva di “chiamare Monti, l’ambasciatore Terraciano a nome mio per chiedergli di chiamare il Pm Singh”.

Monti, secondo i giudici, è Mario Monti, allora presidente del Consiglio. Pasquale Terraciano dal 2004 al 2006 era il portavoce del ministero degli Esteri. Singh era l’allora primo ministro indiano. “Quale fosse il messaggio che Orsi, nel corso della detenzione, intendeva far pervenire al capo del governo indiano, ovviamente non è dato conoscere, ma può essere intuito laddove si ponga mente agli esiti delle richieste di assistenza giudiziaria inviate alle autorità indiane e all’intensa attività di inquinamento probatorio cui i protagonisti della vicenda si sono dedicati”.

Nel non riconoscere le attenuanti generiche a Orsi, la Corte ricorda l’estesa attività “per asservire anche i media alle proprie esigenze private”. E i tentativi (non riusciti) di non far riconfermare il pm Fusco a Busto Arsizio, mettendo in campo relazioni con alcuni ex magistrati (Manuela Romei Pasetti, Giuseppe Grechi…) e con l’allora vicepresidente del Csm Michele Vietti.

Il Fatto quotidiano, 23 aprile 2016
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