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Sala santosubito

Sala santosubito

Ci sono battaglie giornalistiche che si fanno anche quando si sa di essere minoranza. Il giornalista non è un condottiero, che si giudica dalle guerre vinte, e neppure un politico, che si misura sui voti conquistati. Così può scrivere con la coscienza di dire la verità, anche quando sa che la maggioranza attorno a lui proclama il contrario. Ma oggi dobbiamo prendere atto che quella su Giuseppe Sala è una battaglia giornalistica in cui noi del Fatto quotidiano non facciamo parte di una minoranza, ma siamo proprio soli. Soli contro tutti. Ci capita anche su altre questioni, in verità, ma su questa è visibile, palese, clamoroso. Ci guardiamo bene dal frignare, come tanti che si proclamano controcorrente mentre sono applauditi da destra, da sinistra e dal centro. Ma rileviamo che attorno a Sala, Expo e Milano-La-Gioiosa-Macchina-Da-Guerra si è creata una concrezione ideologica che farebbe la felicità del Marx ancora brillante che scriveva l’Ideologia tedesca.

Dunque. C’è stata un’esposizione universale che ha avuto un numero di visitatori pari o inferiore a quella del 2000 ad Hannover, definita “il flop del millennio”: ma è giudicata “un grande successo”. C’è stato un evento costato oltre 2 miliardi di denaro pubblico e che ha avuto ricavi per 700 milioni: ma è considerato un trionfo. C’è stato un manager che non vedeva, non sentiva, non parlava, mentre attorno a lui gli arrestavano tutti i suoi collaboratori: ma è idolatrato come il genio della rinascita di Milano (che comunque fattura di più nella settimana della moda o del design che nei sei mesi di Expo). C’è stato un dirigente che nella sua avventura manageriale ha forzato le regole con spregiudicatezza: ma è stato considerato un buon candidato, anzi l’unico, per diventare sindaco, dopo un Pisapia che, comunque lo si voglia giudicare, delle regole aveva il culto. C’è stato uno che ha affidato, senza gara, incarichi agli amici (tipo Oscar Farinetti) e ha pagato gli alberi di Expo, sempre senza gara, il triplo del loro valore: ma è premiato con una reputazione da uomo di sinistra e santo subito.

Poi arriva – dopo che per anni non sono state fatte indagini, in nome della “sensibilità istituzionale” – una condanna. Piccola, per carità. Sei mesi per falso. Per aver firmato atti con una data anticipata. Una falsificazione oggettiva. Inoppugnabile. Se lo sapeva è un imbroglio, se non si è accorto non è un manager degno di amministrare una grande città. E invece tutti – ma proprio tutti – a dire che l’ha fatto a fin di bene, che è un grande sindaco, che è il taumaturgo che ha fatto rinascere Milano. Chi scrive i fatti – che un falso è un falso, che una condanna è una condanna, che Virginia Raggi (due pesi e due misure) è stata crocifissa per molto meno, che da quel falso, per niente senza conseguenze, Sala ha guadagnato la sua carriera successiva, compresa la poltrona di sindaco – è indicato come un pazzo che non vede la realtà felice e gloriosa del migliore dei mondi possibili. Uno che ha dimenticato il suo passato. Un fascistello che si è venduto a chissà quali poteri.

Il coro non è maggioranza: è unanimità. Unisce destra e sinistra, sopra e sotto, di qua e di là, in uno schieramento compatto che comprende anche molti amici, un paio di ex fidanzate, tante persone con cui ho condiviso belle serate, buona musica e grandi battaglie civili. I fatti, evidentemente, sono ritenuti ombre proiettate nella caverna di Platone, che ognuno può raccontare come vuole. La retorica della Milano vincente è la coperta di Linus a cui molti oggi si aggrappano per non ammettere tradimenti e sconfitte e per non pensare alla disfatta imminente. Personaggi ambigui nella politica e incerti nella legalità diventano gli eroi del tempo. Tempo incerto, dunque, anni ambigui, era fragile, eroi caduchi.

 

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Il Fatto quotidiano, 11 luglio 2019
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