Walter Mapelli, la più grande caccia al tesoro della storia italiana
Mille miliardi di lire: è il bottino del processo Imi-Sir incassato nel 1994 e nascosto all’estero dalla famiglia del petroliere Nino Rovelli. Era frutto di una sentenza comprata e venduta. Il magistrato di Monza Walter Mapelli, scomparso l’8 aprile 2019, lo ha cercato nei paradisi fiscali di tutto il mondo e lo ha trovato. Ecco come
Dopo «la più grande corruzione della storia italiana», ecco la più grande caccia al tesoro della storia italiana. Arrivata felicemente al traguardo, al termine di un viaggio (virtuale) che ha toccato gran parte dei paradisi fiscali e societari del globo, dal Liechtenstein a Cipro, dalle Isole del Canale alle Cayman, dalle Bahamas a Singapore, da Panama a Samoa, dalle Seychelles a Vanuatu. Fino a Labuan, l’isola della Perla di Sandokan… Terre esotiche, finanzieri abbronzati, avvocati spregiudicati: gli ambienti e i personaggi di questa storia vera sembrano tanto quelli raccontati da John Grisham e portati sullo schermo da Sydney Pollack nel Socio.
Ricordate i 1.000 miliardi di lire che l’Imi fu costretta a pagare alla Sir del petroliere andreottiano Nino Rovelli? Era il 1994, Nino era già morto da quattro anni, ma la sua famiglia incassò il malloppo: una sentenza del tribunale civile di Roma le aveva dato ragione, stabilendo che la Sir era fallita non perché era un baraccone clientelare, ma per colpa dell’Imi che non l’aveva salvata. Poiché l’Imi era allora una banca pubblica, lo Stato dovette tirar fuori 1.000 miliardi e pagarli ai Rovelli.
Un paio d’anni dopo, però, i magistrati di Milano Ilda Boccassini e Gherardo Colombo cominciarono a indagare su alcuni giudici romani sospettati di aver venduto le proprie sentenze: tra questi, anche il giudice Vittorio Metta, quello che il 26 novembre 1990 aveva dato ragione ai Rovelli. Seguirono i processi «toghe sporche», con imputati, tra gli altri, gli avvocati Cesare Previti, Attilio Pacifico e Giovanni Acampora, accusati di essere i corruttori dei giudici per conto dei loro clienti (Nino Rovelli per il caso Imi-Sir, Silvio Berlusconi per i casi Sme e Lodo Mondadori).
Quei processi avvelenarono per più d’un decennio la politica italiana. Ma almeno uno, quello Imi-Sir, nel maggio 2006 arriva alla conclusione definitiva: Previti, Pacifico e Acampora avevano corrotto Metta pagandogli almeno un miliardo di lire. Condannato per corruzione il giudice (a 6 anni). Condannati i tre intermediari (a 6 Previti e Pacifico, a 3 anni e 8 mesi Acampora), che per il loro lavoretto avevano ricevuto dai Rovelli una tangente all’estero di 67 miliardi di lire. Dopo essere stati condannati in primo grado e in appello, i mandanti invece se la cavano: morto Nino Rovelli, la moglie Primarosa Battistella guadagna un’assoluzione, il figlio Felice incassa una prescrizione.
A questo punto la vicenda, che il collegio dei giudici di primo grado presieduto da Paolo Carfì aveva definito «la più grande corruzione della storia italiana», sembra finita. Invece, spente le luci sul processo, comincia la caccia al tesoro più imponente mai realizzata in Italia. Sì, perché resta aperta la domanda: dove sono finiti i 1.000 miliardi incassati dai Rovelli grazie a una sentenza comprata e venduta?
La doppia beffa. I protagonisti della caccia al tesoro sono due uomini che si sono fatti le ossa indagando sul crac Cirio, sui conti in rosso dell’Impregilo, sul fallimento della Burago… Il pubblico ministero Walter Mapelli ha un ufficetto alla procura di Monza che sembra il punto d’arrivo d’un labirinto di stanzette e corridoi assediati dalle carte. Il maresciallo Roberto Pireddu lavora poco lontano, in una palazzina della Guardia di finanza di Seregno, insieme ai suoi uomini, Dario Debenedetto, Nunzio Martino, Franco Tomasello. Hanno fatto il giro del mondo, per scoprire il malloppo dei Rovelli. Non c’è paradiso fiscale e societario che non sia segnato sulle loro carte. Viaggi virtuali, come quelli dei soldi che inseguivano. Con l’aereo, di persona, sono andati in posti meno evocativi ma più pragmatici: Lugano, Francoforte, Londra. Lì hanno trovato le carte che hanno ricostruito la mappa del tesoro.
Tutto è nato quando un azzimato avvocato milanese, Gianmaria Chiaraviglio, si è presentato da Mapelli con un esposto firmato da Enrico Salza, presidente del San Paolo di Torino. L’Imi, che nel 1994 ha pagato i 1.000 miliardi, è stato infatti comprato dalla banca torinese. Salza, nel maggio 2006, mette per iscritto il seguente ragionamento: una banca finita nella nostra pancia ha dovuto sborsare 1.000 miliardi a causa di una sentenza che era frutto di corruzione; dunque non avrebbe dovuto sborsarli; dunque oggi li chiede indietro.
Sono gli eredi di Nino Rovelli, naturalmente, che dovrebbero restituirli. Ed è la procura di Monza che può imporlo, poiché l’ultimo domicilio conosciuto di Primarosa Battistella, vedova del petroliere, è (in Italia) la villa dei Rovelli a Biassono, non lontano da Monza (poi la signora ha posto la sua residenza a Montecarlo). Poiché il malloppo è frutto di un reato (corruzione) ed è sparito, gli eredi Rovelli hanno compiuto a loro volta un reato: riciclaggio. Il ragionamento di Salza e Chiaraviglio non fa una grinza e Mapelli si mette al lavoro. Li vuole trovare, i soldi. Un po’ perché gli piacciono le sfide, un po’ perché sa che, se non li trova lui, scatta un paradosso di quelli che si fa fatica a spiegare agli stranieri: a pagare sarebbe lo Stato.
Sì, perché dopo aver fatto l’esposto a Monza, la banca (nel frattempo diventata Intesa-San Paolo) chiede davanti al tribunale civile di Roma che i condannati per corruzione, dunque Metta, Previti, Pacifico, Acampora, e lo Stato (che ha incassato in tasse una parte del malloppo pagato dall’Imi) restituiscano in solido i 1.000 miliardi di lire, più gli interessi. Il bottino così raddoppia e giunge alla cifra record di un miliardo di euro. La prima udienza di questo processo è già fissata a Roma per l’ottobre prossimo, ma è altamente prevedibile che i quattro condannati non possano e non vogliano mettere insieme la cifra richiesta. È possibile, allora, che lo Stato possa essere chiamato a mettercelo lui, alla fine, il miliardo richiesto: già ha sborsato 1.000 miliardi ai Rovelli nel 1994, ora dovrebbe aggiungere un miliardo di euro per Intesa-San Paolo.
Se non andrà così, se la beffa bis ci sarà risparmiata, il merito spetta ai cacciatori di miliardi che dai loro ufficetti di Monza e Seregno hanno ricostruito la traccia dei soldi dispersi in luoghi dove impeccabili banchieri e incalliti prestanome passeggiano all’ombra delle palme, in riva al mare, mentre il vento porta gli echi di allegre musiche in levare.
I primi passi del tesoro. Walter Mapelli, dopo la visita dell’avvocato Chiaraviglio, apre un fascicolo. Reato ipotizzato: riciclaggio. Indagati: i Rovelli, che vengono messi sotto intercettazione giudiziaria. Tanto per cominciare, il pm va a cercare nel vecchio fascicolo di Boccassini e Colombo la ricostruzione dei primi passaggi del malloppo. Era il 13 gennaio 1994 quando l’Imi sborsò ai Rovelli 980 miliardi di lire. In realtà al procuratore speciale della famiglia Rovelli, l’avvocato Mario Are, ne arrivarono 678, perché 320 miliardi andarono subito al fisco italiano.
Dalle mani di Are i soldi finirono subito in Svizzera, su conti della Sbs di Lugano e poi della Bil in Liechtenstein. Il fisco svizzero incamerò 92 milioni di franchi come tassa di successione, mentre di altri 85 milioni di franchi svizzeri si persero le tracce. Di quello che resta – un bel tesoro di oltre 480 miliardi di lire – i magistrati hanno trovato i segni in alcune banche, la Bil, la Banca Commerciale di Lugano, la Ubs. Presso la Bil sono domiciliati i conti controllati da Primarosa Battistella che fanno riferimento a due Stiftung (fondazioni), Vitaris e Zestix, e un trust, Picara.
È da Picara che escono le ricche tangenti e i sontuosi onorari (almeno 90 milioni di franchi svizzeri) che vanno agli avvocati della famiglia, Are, Previti, Pacifico, Acampora. Poi i soldi si disperdono in mille rivoli; 135 milioni di franchi passano alla Brown Brothers Harriman di New York; 164 milioni alla Ubs di Jersey (Isole del Canale); 9 milioni alla Barclays Bank di Dublino. I Rovelli – è il 1996-97 – scoprono un po’ le loro carte con il procuratore elvetico Carla Del Ponte, per evitare di subire in Svizzera l’imputazione di riciclaggio. Poi i processi italiani decollano, l’accusa per tutti gli imputati è corruzione e nessuno pensa più al riciclaggio. Intanto le tracce dei soldi si perdono. I cacciatori di Monza, quasi dieci anni dopo, ripartono da qui.
Traditi dal telefono. Mapelli avvia qualche rogatoria all’estero e qualche intercettazione telefonica. Le rogatorie non danno grandi risultati: il Liechtenstein non gli risponde, il principato di Monaco quasi lo sbeffeggia. Le intercettazioni telefoniche danno invece buoni frutti. I fratelli Rovelli parlano al telefono, tra di loro e con i loro consulenti. Avevano da tempo capito che il bottino intascato era a rischio. Dal 1996 quei rompiscatole di Boccassini e Colombo avevano cominciato a indagare anche sul giudice Metta, che aveva fatto il miracolo di assegnare ai Rovelli quella cascata di soldi. Poi erano arrivate le sentenze, di primo grado, d’appello, di Cassazione. Il rimborso dell’Imi si era trasformato in bottino frutto della corruzione. Per riuscire a non perderlo, la famiglia si era messa al lavoro.
Aveva inventato due tipi di manovre. La prima: far girare i soldi dalla madre ai figli, a seconda delle convenienze. Nino, alla sua morte, aveva lasciato tutto alla moglie e i figli non avevano pensato nemmeno per un istante di rivendicare la legittima, cioè la parte d’eredità che spetta loro per legge: perché è Felice, il figlio maggiore, a essere accusato di aver pagato le tangenti a Previti e soci, dunque i soldi sono più sicuri se restano nelle mani della mamma. In caso di condanna, Felice non ha (ufficialmente) la disponibilità del malloppo, tutto nei conti esteri di Primarosa Battistella.
Le condanne, infatti, arrivano: Felice è ritenuto colpevole di corruzione in primo grado e in appello. La Cassazione lo salva grazie alla prescrizione. Intanto però l’Imi aveva cominciato a chiedere a Primarosa Battistella la restituzione del malloppo. Ed ecco il nuovo gioco di prestigio: tutti i beni visibili passano dalla mamma ai figli, grazie a provvidenziali donazioni. La mamma non ha più niente al sole e l’Imi è destinata a restare a bocca asciutta.
Ma nei fatti le cose vanno ben diversamente. La famiglia Rovelli è molto unita, mai uno screzio tra la madre Primarosa (nelle intercettazioni è chiamata «la sciura») e i quattro figli Felice, Oscar, Angela e Rita (sposata con l’imprenditore Francesco Bellavista Caltagirone, presidente dell’Acqua Marcia). Mai un dissidio sulla gestione del malloppo. Nella prima fase, è Felice il manovratore dei soldi di tutti, affiancato dall’avvocato Rubino Mensch. Dopo il 1997, quando Felice viene arrestato su richiesta di Boccassini e Colombo, tutto cambia. Lo scoprono Mapelli e Pireddu, ascoltando le telefonate della famiglia. È Oscar, adesso, che prende il posto del fratello primogenito e diventa il gestore del bottino.
E il nuovo superconsulente è un professionista nato a Padova nel 1936, residente a Francoforte, ma con studio anche a Milano: Pierfrancesco Munari, erede di una famiglia che produceva scarponi da sci. «Cerchino pure, tanto il tesoro non lo troveranno mai», dice Oscar parlando al telefono con Munari, «non troveranno una lira!». E invece proprio loro stavano dando le prime indicazioni per farlo scoprire. In una telefonata del 30 ottobre 2006 Oscar chiede a Munari consigli sulle indagini ormai in corso: «Che cosa devo dirgli?». Munari: «Niente, chissenefrega, lasci perdere tutto… Dici: i soldi non ci sono più, mia madre ha più di 70 anni, fine…». Oscar: «Certo, gli dico: mia mamma ha più di 70 anni, i soldi li ha spesi tutti, e basta». Oscar conta anche sui tempi lunghi della giustizia, già sperimentati con i processi «toghe sporche»: «Tanto la legge permette di prepararti per i prossimi dieci anni, no? I processi penali durano dieci anni, lo abbiamo visto!».
Il 21 novembre 2006 Munari parla con una banker di Miami della Merril Lynch, Evelyn Isaia: «Abbiamo due conti lì, di uno il possessore beneficiario è Oscar, dell’altro Angela». Evelyn chiede: «Ma il denaro di Angela ha la stessa origine di quello di Oscar?». Munari risponde: «Sì, certo!». «Da suo padre? Esattamente, il padre è morto e loro hanno ereditato il denaro… C’era qualche problema con la società chimica?», domanda Evelyn. «No, non penso», svicola Munari. Poi la banker incalza: «Allora questi sono i soldi del papà, della famosa compagnia chimica?». «Sì», ammette Munari.
Oscar è in ottimi rapporti con un funzionario del Credito Emiliano, agenzia di Cologno Monzese: da lì, dal mitico conto corrente numero 1.000, preleva parecchi contanti. Poi, per sicurezza, simula di cambiare residenza da Biassono a Tallin, in Estonia. Il 22 novembre 2006 conversano tra loro Oscar e Felice. I fratelli sanno che ci sono indagini in corso, ma non hanno paura. Oscar dice al fratello: «Ma sì, vanno a vedere i soldi dove sono andati nel 1998. Ma nel 1998 è stata buttata tutta la carta, non troveranno niente». Ogni tanto i protagonisti di questa storia tentano di mascherare il vero argomento di cui discutono accennando a «mottarelli», «cornetti alla crema», «morbide croccanti», «mottarelli ricoperti da tenere al caldo fin che puoi». Ma non ci vuole grande fantasia per capire che di soldi si parla, e non di gelati.
Arresti e perquisizioni. Mapelli ha fatto bingo. Il 12 gennaio 2007 scatta l’operazione caccia al tesoro. Vengono arrestati Oscar Rovelli e Pierfrancesco Munari. Contemporaneamente vengono eseguite tre perquisizioni. Una collega di Mapelli, Donata Costa, vola a Londra, nell’abitazione di Angela Rovelli. Un altro pm della procura di Monza, Giordano Baggio, va a Francoforte, negli uffici di Munari. Gli agenti del maresciallo Pireddu si precipitano a Lugano, a casa di Oscar. Portano via 79 faldoni e chili e chili di documenti. In quelle carte, a saperle leggere, c’è la mappa del tesoro.
Con pazienza, senza bisogno di alcun consulente esterno o di superspese, Mapelli e i suoi agenti ricostruiscono il puzzle. Scoprono quattro strutture, gestite da Munari: Dakari, Rondix, Ixor, Krizia. Dakari movimenta 132 milioni di dollari depositati sulla Royal Bank of Scotland di Guernsey (Isole del Canale), che si disperdono poi in una moltitudine di conti in banche di Cayman, Bahamas, Bermuda, Costa Rica, Singapore… E Stati Uniti: a Miami, ma anche San Diego e New York. Molti conti fanno riferimento a trust domiciliati alle Bahamas e nel Belize.
La seconda struttura, Rondix, gestisce 104 milioni di dollari ed è basata in Liechtenstein. Ma poi disperde i suoi conti alla Bil in Lussemburgo, alla Hambros Bank a Gibilterra, alla United Overseas Bank di Bahamas… E poi ancora in una quantità di rivoli che finiscono alla Bank of America di Dublino, alla Coutts Bank di Londra e a due poker di quattro trust ciascuno domiciliati alle Isole Cook e a Mauritius.
La terza struttura, Ixor, gestisce 19 milioni di dollari attraverso la Cayman National Bank e il Banco Nacional del Costa Rica. I soldi finiscono poi in una società, Romanian Bancorporation, i cui soldi sono gestiti dalle agenzie di Miami di importantissime banche americane come Merrill Lynch e Wachovia. I 12 milioni di franchi svizzeri manovrati invece dalla quarta struttura di famiglia, Krizia, passano attraverso le società Cargen, con conti presso la Société Générale di Cipro, e Pital, società di Tortola, nelle Isole Vergini Britanniche, con conti alla Hambros Bank di Gibilterra.
A questo proposito, dalle carte del tesoro Rovelli può essere colto al volo anche qualche consiglio per gli investimenti. Avete un bel gruzzolo e lo volete mettere al sicuro? Sconsigliata la Hambros Bank di Gibilterra: «Lasciammo Gibilterra perché la banca era costosa ed eccessivamente burocratizzata», dice Munari in un interrogatorio. Consigliata invece Labuan: isoletta offshore al largo delle coste del Borneo, nota finora in Italia soltanto per via di Marianna, la «Perla di Labuan» che fa perdere la testa a Sandokan.
Il cuore del sistema Rovelli sono i trust (Eastwest Trust, Romanian Trust, Animal Trust…), strutture in cui il denaro è formalmente affidato a un gestore indipendente (trustee) che controlla una cascata di società e i loro conti bancari. Ma i trust del sistema Rovelli hanno dei guardiani che di fatto azzerano l’indipendenza del trustee: Munari ne è sempre il protector con poteri di controllo e poi, a valle, è il procuratore dei conti. Dal 17 gennaio al 19 febbraio 2007, Munari compie un grand tour, un viaggio di lavoro molto impegnativo nei luoghi dove è custodito il bottino: Milano, Francoforte, Miami, Grand Cayman, San Josè di Costa Rica, Miami, Francoforte, Milano. Prenota i grandi hotel internazionali, Hyatt, Intercontinental, Marriott.
Accanto a Munari, si muovono altri personaggi di primo piano nel sistema: uno di questi è Humberto Pacheco Coto, titolare del più grande studio legale del Costa Rica; poi ci sono i professionisti di grandi studi di New York. Molto attiva anche Evelyn Isaia, la banker di Merrill Lynch che nel dicembre 2006 vola di persona in Costa Rica a stringere rapporti con le banche e i professionisti locali.
Soldi gelati. I nomi dei trust in cui si sono imbattuti Mapelli e Pireddu sono di fantasia: Oslo, Frankfurt, Antwerp, Rio (nella struttura Dakari). Oppure: Olympus, Fuji, Andes, Rainer; e ancora: Otter, Fox, Antelope, Ram (nella struttura Rondix). Un enigmista se ne accorgerebbe subito: i nomi cambiano ma le iniziali sono le stesse. E sono le iniziali, guarda caso, dei quattro figli: Oscar, Felice, Angela, Rita.
I Rovelli hanno investito molto negli Stati Uniti e nell’area del dollaro. E questa si è rivelata una mossa non fortunata. Primo, perché il dollaro si è molto indebolito rispetto all’euro. Secondo, perché le autorità americane hanno cominciato a collaborare con Mapelli disponendo il sequestro di 115 milioni di dollari individuati nelle banche Usa in Florida, Texas, California, New York: «Freeze the money», ha decretato il giudice civile americano, su richiesta della procura federale di Washington attivata dall’Italia. Jack De Cluviert, procuratore federale di Washington, è venuto in Italia a parlare con Mapelli nel suo piccolo ufficio di Monza, in una palazzina così diversa dagli austeri edifici giudiziari della capitale americana. Ma il risultato è arrivato ugualmente: un bel gruzzolo è oggi congelato negli Stati Uniti, in attesa degli eventi.
Oscar Rovelli e Pierfrancesco Munari sono in carcere dal gennaio scorso. Il primo tace. Il secondo, posto agli arresti domiciliari dopo quattro mesi di cella, ha cominciato ad ammettere quello che non può più negare davanti all’evidenza delle carte. Come andrà a finire? Le strade aperte sono due. La prima è lunga e dolorosa: Banca Intesa aspetta la fine delle indagini e delle procedure per riportare i soldi dei Rovelli in Italia e poi incassa quanto ha chiesto, cioè un miliardo di euro. La seconda è più rapida: un accordo tra i Rovelli e Banca Intesa, una transazione che potrebbe chiudersi con la banca che si accontenta di una cifra molto più bassa di quella pretesa. La famiglia paga, lo Stato risparmia. Chissà se Mapelli e Pireddu riusciranno mai ad andare in vacanza nei paradisi fiscali che hanno sgominato dai loro ufficetti di Monza e Seregno?