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Eni. Il processo per corruzione in Nigeria e lo strano caso del re degli Ikebiri

Eni. Il processo per corruzione in Nigeria e lo strano caso del re degli Ikebiri

Il re degli Ikebiri non è mai entrato nell’aula del processo che si sta svolgendo a Milano contro l’Eni, accusata di corruzione internazionale in Nigeria. È però protagonista di un altro processo milanese, che si è aperto il 9 gennaio davanti al Tribunale civile: a nome della sua comunità Ikebiri, che vive nel delta del Niger, re Francis Ododo chiede all’Eni di bonificare le acque e le terre del suo popolo, inquinate da una imponente fuoriuscita di petrolio nel 2010. Nella prima udienza ha ottenuto un importante successo: il giudice ha respinto la richiesta di Eni di fermare il processo per mancanza di giurisdizione, spostandolo in Nigeria, e lo ha invece incardinato in Italia.

Un precedente, per le tante comunità che in futuro potrebbero chiedere alla compagnia petrolifera italiana di risarcire i danni ambientali provocati in giro per il mondo. Se il processo dovesse arrivare a una sentenza di condanna, sarà la prima volta che una società italiana verrebbe ritenuta responsabile da parte di una corte italiana di danni ambientali e violazioni dei diritti umani all’estero.

Il processo è stato rinviato al 18 aprile. Ma potrebbe finire quel giorno, senza arrivare a sentenza. Perché Eni ha avviato una trattativa diretta con re Ododo, tagliando fuori l’avvocato italiano della comunità Ikebiri, Luca Saltalamacchia, e la ong che la supportava, Friends of the Earth Europe. La compagnia petrolifera ha promesso interventi nei villaggi degli Ikebiri e un buon risarcimento, in cambio della rinuncia a proseguire la causa in Italia. Re Ododo ci sta pensando. Senza sapere nulla dell’altro processo in corso, in cui Eni e i suoi vertici (l’amministratore delegato Claudio Descalzi e il suo predecessore, Paolo Scaroni, con altre undici persone) sono accusati di aver pagato una super-tangente da 1,3 miliardi di dollari versata da Eni e Shell a politici nigeriani per ottenere nel 2011 i diritti di sfruttamento del grande giacimento petrolifero Opl 245.

Le udienze si susseguono, ogni mercoledì, con pochi colpi di scena. I testimoni d’accusa comparsi finora hanno confermato che degli 1,3 miliardi di dollari pagati da Eni e Shell per Opl 245 non un cent è finito allo Stato nigeriano. I soldi sono andati tutti a governanti della Nigeria e a mediatori italiani e internazionali, con qualche stecca che – secondo l’accusa – sarebbe tornata nelle tasche dei manager Eni.

A movimentare le udienze, sono le bizze degli apparati tecnici del Tribunale di Milano per le videoconferenze durante le quali sono interrogati i testimoni in Nigeria: non proprio un esempio di efficienza tecnologica, con la voce che si perde e la connessione che salta. A queste si sommano le disavventure di traduttori inglese-italiano da far invidia ad Alberto Sordi.

Nell’udienza del 9 gennaio, l’interprete del Tribunale è stata cacciata per palese inadeguatezza, rilevata sia dall’accusa, sia dalla difesa. Per non bloccare il processo, il presidente del collegio giudicante Marco Tremolada ha chiesto in prestito una traduttrice alle difese, che Shell ha gentilmente concesso. Ma solo per un’udienza, “poi servono a noi”. Più generosa Eni, che dopo aver visto quanto sia difficile capire che cosa dicono i testimoni collegati in videoconferenza dalla Nigeria, a causa della cattiva qualità dell’audio e delle trasmissioni disturbate e instabili, nell’udienza del 16 gennaio ha fatto una proposta choc: ha offerto di pagare le spese di viaggio per fare arrivare i testimoni in Italia, in modo che possano parlare in aula a Milano, annullando le videoconferenze.

C’è voluta un’intemerata del pm Fabio De Pasquale per bloccare la proposta. La Procura – ha detto De Pasquale – si impegnerà a chiarire ai testimoni nigeriani che resta preferibile il loro trasferimento per le udienze in Italia, piuttosto che il collegamento dalla Nigeria. Ma si è opposto all’offerta dell’Eni di anticipare loro le spese di viaggio, poiché “è improprio che sia l’imputato a pagare il trasferimento dei testi”. Chissà se anche il re degli Ikebiri arriverà a Milano, alla sua udienza d’aprile.

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Il Fatto quotidiano, 6 marzo 2019
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