Eni e tangenti, assoluzioni e condanne
Nigeria, le prime condanne
Ci sono giornate buone e giornate meno buone. Anche per una grande compagnia come Eni. Ieri, 20 settembre 2018, giornata negativa, con le condanne di due mediatori delle tangenti petrolifere che Eni avrebbe pagato in Nigeria. Il giorno prima, invece, erano arrivate le assoluzioni nel processo per le mazzette in Algeria, che hanno salvato, in primo grado, l’ex amministratore delegato Paolo Scaroni e il responsabile operativo per il Nordafrica Antonio Vella, pur confermando che la corruzione c’era e condannando i manager della controllata Saipem.
La vicenda nigeriana è più spinosa di quella algerina, perché coinvolge anche l’attuale amministratore delegato di Eni, Claudio Descalzi, oltre al suo predecessore Scaroni (oggi vicepresidente di Rothschild, referente in Italia del fondo Elliott e presidente del Milan dopo l’uscita di scena del misterioso impreditore cinese). Il processo in cui sono imputati a Milano insieme a una decina di altre persone è alle prime udienze, ma ieri è arrivata, come un antipasto, la sentenza di primo grado per due imputati che avevano scelto il rito abbreviato: il nigeriano Obi Emeka e l’italiano Gianluca Di Nardo, mediatori dell’affare petrolifero stretto tra l’Italia e il Paese africano. È una sentenza di condanna, in primo grado, a 4 anni di carcere per concorso in corruzione internazionale. Oltre alla pena detentiva, il giudice dell’udienza preliminare Giusy Barbara ha deciso anche la confisca di 140 milioni di euro.
Condanna e confisca riguardano soltanto i due mediatori e non obbligano i giudici del processo principale, appena iniziato, a seguire le orme del giudice dell’abbreviato: perché il suo non è un verdetto definitivo e poi perché, non essendo una “sentenza dibattimentale”, non ha efficacia su un processo con rito ordinario. Ma certo è un primo giudizio che non promette niente di buono per Eni e i suoi vertici: un giudice ha sentenziato che la corruzione c’è stata e che la mazzetta è stata pagata.
La vicenda inizia in Nigeria nel 2011, quando Eni e Shell conquistano la concessione di un super-giacimento petrolifero, detto Opl 245, versando 1 miliardo e 300 milioni di euro su un conto ufficiale del governo nigeriano. Tutto regolare, sostiene Eni. Peccato che i magistrati milanesi Fabio De Pasquale e Sergio Spadaro ricostruiscano che i soldi vanno poi a finire sui conti privati della società Malabu, dietro la quale si nasconde l’ex ministro nigeriano del petrolio Dan Etete. E poi girano per conti libanesi e svizzeri, fino a tornare in Nigeria, nei conti di ministri e politici locali che si intascano almeno 523 milioni.
Il primo schema dell’affare prevedeva il pagamento diretto della tangentona a Dan Etete e ai suoi uomini, con l’intervento – secondo l’ipotesi d’accusa – di intermediari italiani (Luigi Bisignani e Gianluca Di Nardo) e stranieri (il nigeriano Emeka Obi e l’azero Ednan Agaev, ex ambasciatore russo in Colombia). Questo schema, ritenuto troppo rischioso, viene abbandonato e sostituito con il pagamento diretto al governo nigeriano. Ma è solo un cambiamento formale – sostiene l’accusa – per rendere il pagamento della tangente meno visibile. È lo stesso affare, ma fatto – dice Agaev – “con il preservativo”.
La storia, sotterranea, emerge almeno in parte nel 2013 a Londra, quando Obi trascina in tribunale Etete, accusandolo di non avergli pagato la commissione per il suo ruolo di mediatore, in società con Di Nardo. Il giudice britannico gli dà ragione, ingiungendo all’ex ministro nigeriano del petrolio di pagargli 110 milioni, versati e subito spostati in Svizzera. Dove piombano i pm milanesi, che nel 2014 ne ordinano il sequestro, ritenendoli una parte della tangente. Ieri la gup Barbara conferma questa lettura, disponendo la confisca di 140 milioni. Dunque la corruzione internazionale c’è stata, la tangente è stata pagata, i mediatori sono ritenuti colpevoli di concorso in corruzione. Allargando lo sguardo e passando dai mediatori ai corruttori, da una parte, e ai corrotti, dall’altra, il processo ordinario potrebbe stabilire le responsabilità di Eni e di Shell, anch’essa imputata con l’ex numero uno Malcolm Brinded e tre ex manager.
Eni “ribadisce la correttezza del proprio operato” e si dice convinta che il processo ordinario lo dimostrerà. L’associazione Re:common, che aveva chiesto di costituirsi parte civile nel processo milanese, dichiara invece che “è giunto il momento che il governo italiano, in qualità di principale azionista di Eni, consideri la possibilità di sospendere tutti i manager coinvolti nel caso, fino al giudizio definitivo”.
(Il Fatto quotidiano, 21 settembre 2018)
Algeria, le prime assoluzioni
La tangentona c’è: quasi 200 milioni di dollari. I dirigenti di Saipem l’hanno pagata. Ma Eni, che controllava Saipem, secondo i giudici non ne sapeva niente: dunque assolto l’allora numero uno Paolo Scaroni. È questa la sentenza di primo grado che è arrivata ieri a Milano, al termine del processo per la corruzione internazionale petrolifera in Algeria. Saipem, la società del gruppo Eni che apre i cantieri, scava i pozzi e costruisce gli oleodotti, tra il il 2008 e il 2011 pagò una mazzetta di 198 milioni di dollari al ministro algerino dell’energia Chekib Khelil e al suo entourage, per ottenere otto grandi appalti petroliferi del valore complessivo di 11 miliardi di euro.
La “commissione” fu versata per inesistenti “consulenze” alla società Pearl Partners, basata a Hong Kong e controllata da un giovane e riccioluto faccendiere internazionale con passaporto francese: Farid Bedjaoui, uomo di fiducia del ministro Khelil. Condannati, dunque, l’allora amministratore delegato Pietro Tali e il responsabile operativo di Saipem in Algeria Pietro Varone (entrambi a 4 anni e 9 mesi); e il direttore finanziario Alessandro Bernini (4 anni e 1 mese). Condannati gli algerini Bedjaoui, latitante a Dubai (5 anni e 5 mesi), e i suoi collaboratori Samyr Ouraied e Omar Habour (4 anni e 1 mese).
Condannata Saipem: sanzione pecuniaria di 400 mila euro e confisca di 198 milioni, già messi sotto sequestro dai pm milanesi in banche tra il Lussemburgo, la Svizzera, il Libano e Hong Kong.Dietro la “figlia” Saipem, però, si muoveva la “mamma” Eni: questa era l’ipotesi d’accusa dei pm Fabio De Pasquale e Isidoro Palma, sulla base delle testimonianze di due manager Saipem, Tullio Orsi e Pietro Varone, che avevano raccontato che l’allora amministratore delegato di Eni Scaroni aveva partecipato a incontri con gli algerini a Parigi, a Vienna e a Milano, all’Hotel Bulgari.
Il tribunale non ha ritenuto provate le accuse e ha così assolto sia Scaroni, sia l’allora responsabile Eni per il Nordafrica Antonio Vella. Oggi Scaroni è vicepresidente della banca d’affari Rothschild, consigliere d’amministrazione di assicurazioni Generali ed è l’uomo in Italia del fondo Usa Elliott, che lo ha messo anche alla presidenza del Milan calcio, dopo l’uscita di scena del misterioso cinese Yonghong Li. Vella è dal luglio 2014 alla guida di una delle tre unità di business create dal nuovo ad di Eni, Claudio Descalzi.
Per i giudici non sono state convincenti neppure le accuse per la corruzione ritenuta “parallela”, quella per dare il via libera degli algerini direttamente a Eni per l’acquisto della società canadese First Calgary Petroleum che, in joint-venture con la società petrolifera statale algerina Sonatrach, deteneva un giacimento di gas a Menzel. Assolti dunque “per non aver commesso il fatto” sia l’azienda Saipem e i suoi manager Tali, Bernini e Varone, sia Eni, con Scaroni e Vella. Tutti assolti anche per la sottostante frode fiscale. Scaroni resta sotto processo per le presunte tangenti che sarebbero state pagate da Eni in Nigeria per ottenere una gigantesca concessione petrolifera.
(Il Fatto quotidiano, 20 settembre 2018)
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