Raul Gardini, l’imprenditore del Nord che divenne socio della mafia
Quando partì il colpo di pistola, la mattina del 23 luglio 1993, Raul Gardini aveva davanti a sé tre grossi problemi, pronti a esplodere come una bomba a orologeria. Il primo lo rilevarono subito tutti: Gardini sarebbe stato arrestato, forse quello stesso giorno, per la madre di tutte le tangenti, il mazzettone miliardario per l’affare Enimont. Il secondo si mostrò solo qualche tempo dopo: i conti della Ferruzzi erano disastrosi, Gardini aveva portato al crac il grande gruppo affidatogli dal vecchio Serafino Ferruzzi. Il terzo problema è affiorato solo molti anni dopo: Gardini aveva consegnato alcune società del suo gruppo nelle mani di Cosa Nostra.
Il colpo di Walther PPK 7.65 ebbe un effetto immediato. Regolò in una frazione di secondo tre questioni per capire le quali noi abbiamo avuto bisogno di molti anni. Più svelto a capire fu Nino Buscemi, imprenditore siciliano per conto di Cosa Nostra. Parlando di Lorenzo Panzavolta, l’uomo di Gardini per il settore appalti, Buscemi un giorno esclamò: «Quello è un duro, meglio di un vero uomo d’onore».
Nella sua bella casa milanese di piazza Belgioioso, Gardini morì. Le indagini successive stabilirono che si era trattato di suicidio. Fu uno dei momenti più drammatici degli anni di Mani pulite: quella stessa mattina, nella chiesa di San Babila, non troppo distante da palazzo Belgioioso, si celebravano i funerali di Gabriele Cagliari, manager socialista che si era ucciso in carcere.
Gardini era molto noto in Italia e all’estero. Era stato a capo del secondo gruppo privato italiano, la Ferruzzi. Era l’uomo che con il Moro di Venezia aveva sfidato le barche più veloci e i velisti più bravi del mondo. Era stato soprannominato il Contadino, il Pirata. Aveva dichiarato «la chimica sono io», quando aveva cercato di impadronirsi di tutta l’Enimont, la grande joint venture che avrebbe dovuto unire le aziende chimiche pubbliche dell’ENI e quelle private di Montedison-Ferruzzi.
Gardini, uomo non abituato a perdere, nell’estate 1993 era uno sconfitto. Prima aveva visto naufragare l’appena celebrato matrimonio Enimont. Poi aveva fallito il tentativo di impadronirsi della chimica italiana. Infine la famiglia Ferruzzi lo aveva estromesso dal gruppo. Anche il Moro di Venezia aveva perso la sua sfida con America Cube. Chi avrebbe mai pensato che Gardini – l’uomo che aveva avuto le copertine dei grandi giornali d’Italia e del mondo – potesse essere un socio di Cosa Nostra? Indicibile, impensabile.
Il romagnolo Raul, a Milano, a dispetto del bel palazzo in piazza Belgioioso, era sempre stato considerato un outsider (come il siciliano Salvatore Ligresti, come il pur lombardo Silvio Berlusconi): diverso dagli uomini con le radici saldamente piantate nel potere dell’industria e della finanza del Nord. Ma i soldi e il potere avevano vinto in fretta ogni resistenza: e gli outsider avevano conquistato Milano, sempre pronta a dimenticare, in nome del potere e dei danee, non solo lo stile, ma anche la decenza.
Ma come era accaduto, dunque, che il secondo gruppo privato italiano, quotato alla Borsa di Milano, con rapporti d’affari in tutto il mondo, fosse finito nell’orbita di Cosa Nostra? Per comprenderlo è necessario partire dal tavulinu e dal tavolone, dalla rivoluzione corleonese della mafia in Sicilia ma anche dal giro milanese degli affari e dal sistemone romano politico-affaristico per la spartizione degli appalti. Una storia, in definitiva, molto italiana.
Tavulinu e Sistemone
La mafia moderna ha sempre cercato di guadagnare dagli appalti. La sua logica era più o meno quella del pizzo, o della guardiania: l’azienda che otteneva un lavoro nel territorio di pertinenza di una Famiglia, doveva versarle una certa somma che pagava innanzitutto la “protezione” dei cantieri. In più, doveva affidare i subappalti a imprese suggerite o direttamente controllate dalla Famiglia. Negli anni settanta e nella prima parte degli ottanta in Sicilia si erano formati comitati d’affari composti soltanto da politici e imprenditori. I più potenti erano quelli dei cavalieri del lavoro di Catania (Costanzo, Rendo, Graci, Finocchiaro) e della santa trinità d’Agrigento (Filippo Salamone, Giovanni Miccichè, Antonio Vita).
Si sedevano al tavolo con i politici locali, perlopiù democristiani, qualche volta socialisti, e decidevano le strade e le dighe, gli acquedotti e i piani regolatori. Cosa Nostra, certo, c’era. Ma lasciava fare agli amici, ben sapendo che su quegli amici avrebbe sempre potuto contare. E alla fine, comunque, passava a riscuotere. Per i lavori medi e piccoli, i comitati d’affari erano più ruspanti, ma non meno agguerriti: Cosa Nostra, tramite le sue imprese, sedeva direttamente al tavolo delle spartizioni. Per la provincia di Palermo poi, quella centrale per Cosa Nostra, funzionava un sistema inflessibile, che aveva come signore politico Salvo Lima, il capo degli andreottiani siciliani, come imprese una corona di società in parte controllate direttamente dalla mafia, e come intermediario un personaggio che era diventato noto per le sue avventure di pilota da corsa e per la sua faccia da attore del cinema: Angelo Siino, detto Bronson.
Lasciate le corse, aveva impiantato alcune imprese attive nel settore dei lavori pubblici. E soprattutto non aveva mai smesso di tessere rapporti con politici e amministratori – la sua vera risorsa competitiva – anche attraverso i legami massonici: Siino è infatti iscritto alla loggia Orion di Palermo. È stato proprio lui a raccontare dall’interno (confermato da una decina di collaboratori di giustizia, ultimo un pezzo da novanta come Giovanni Brusca) il sistema del tavulinu, i segreti degli appalti siciliani, gli insospettabili alleati della mafia che venivano dal Nord. Come Raul Gardini.
La politica decideva gli appalti, cioè dove far piovere i soldi delle opere pubbliche, strade o gallerie, dighe o impianti di potabilizzazione; le aziende lavoravano, e spesso erano degli amici o degli amici degli amici; alla fine passava Siino a riscuotere le tangenti per Lima. «Posso dire» racconta a verbale Bronson «che ho controllato 30 miliardi di tangenti in quattro anni, di cui la metà destinata ai politici e metà a Cosa Nostra.» Da dove proveniva l’investitura di Siino, che gli aveva consentito di maneggiare affari così delicati, muovendosi tra personaggi così particolari? Forse dalla sua faccia da Bronson, dalla sua capacità di rapporti, dalla fama conquistata al volante, da una certa professionalità nel trattare con politici e mafiosi.
Ma tutto ciò non basta: determinante per Siino era stato il rapporto di fiducia che aveva instaurato – lui, pulito e anche un po’ famoso – con due personaggi potentissimi che avevano molti affari da concludere ma poca voglia d’apparire: Giovanni Brusca e Balduccio Di Maggio. Brusca era il rampollo del patriarca di San Giuseppe Jato, Bernardo, capomafia alleato dei corleonesi di Totò Riina. Di Maggio, allora, non era ancora diventato il nemico mortale di Giovanni Brusca, il “pentito con la ricaduta”, il boss che dopo il pentimento era tornato a fare il mafioso; era invece compare di cosca di Giovanni e proprio a lui il vecchio Bernardo, dal carcere, aveva affidato la reggenza della Famiglia.
Siino già conosceva Balduccio, che era suo compaesano e anche un po’ suo parente, alla lontana, per parte di suocera; ma la conoscenza diventò amicizia nel 1980, per merito della comune passione per i rally: alla gara automobilistica della Conca d’Oro corsero sia Siino che Di Maggio e Bronson prestò a Balduccio, per correre, una Opel Ascona 200.
Cambia la musica
Attorno al 1986, però, il sistema degli appalti cambia. Balduccio la racconta così: «Verso il 1986 viene da me Angelo Siino e mi dice: “Ci sono dei lavori della Provincia che vanno spersi, straviati così, la gente fa offerte maggiori del 25, del 30 percento… Se noi ci mettiamo ’sti lavori in mano – che io conosco dei politici che mi fanno avere gli elenchi delle gare – organizziamo noi le gare e cerchiamo di guadagnare qualche cosa anche noi”. Io» risponde Di Maggio «ci dissi: guarda, ne devo parlare e ti faccio sapere qualcosa».
Di Maggio riferisce la proposta a Riina. E la proposta Siino piace. Bronson si mette in viaggio e va a Linosa a riferire anche a Giovanni Brusca: «Fu Siino Angelo, che mi venne a trovare a Linosa dove mi trovavo al soggiorno obbligato, a propormi di organizzare l’aggiudicazione degli appalti della Provincia col sistema della rotazione tra le varie imprese, in modo da assicurare l’aggiudicazione con ribassi molto inferiori e guadagnare le percentuali che preciserò».
Attenzione: se invece di lasciar gestire le gare a politici e imprese, ci si accorda fin dall’inizio su chi deve vincere, magari inventando un sistema di turnazione per non scontentare nessuno o quasi, si riuscirà a spuntare più soldi per tutti. Perché lasciare le gare d’appalto in balia dei meccanismi della libera concorrenza, con il bel risultato di aggiudicare lavori con ribassi anche del 25 o del 30 percento? Meglio accordarsi tutti sulla cifra da scrivere nelle buste chiuse, e chi vince lo fa con ribassi minimi (tanto, paga la cassa dell’ente pubblico di turno). Tutti più contenti: imprese, politici, mafiosi; perché ci sono più soldi per tutti.
Nasce così un nuovo sistema. Basta con il metodo un po’ primitivo di mungere denaro alle imprese a cose fatte. Si può fare meglio, entrare alla grande nel business, avviare un metodo scientifico: controllare fin dall’inizio gli appalti, fin dalla gara per la loro assegnazione. Che meraviglia, che modernizzazione! La stessa che – segno dei tempi – era maturata a Milano (il “lodo Natali” per gli appalti della metropolitana e di tutto il resto) e a Roma per i megappalti nazionali. Qualche anno dopo troverà un nome che avrà successo: Tangentopoli.
Scrivono i magistrati di Palermo: “Dopo la guerra di mafia e la sistematica eliminazione di tutti gli esponenti della cosiddetta ala tradizionalista, il gruppo vincente dei corleonesi ha stabilmente occupato la struttura di vertice dell’organizzazione mafiosa operando una concentrazione progressiva delle leve del potere […]. Dalla convivenza parassitaria e di infiltrazione occulta nel tessuto politico-istituzionale-economico, si passa ad affermare un ruolo di supremazia di Cosa nostra nelle attività economiche. Invadendo un terreno prima dominato esclusivamente da imprese di dimensione nazionale e dai loro referenti politici, secondo il sistema di illecita spartizione lottizzatoria degli appalti pubblici chiamato Tangentopoli”.
Chiaro? Per una volta, Palermo impara da Milano e da Roma, la mafia assume i metodi degli affari e della politica. Ma ci aggiunge del suo: la presenza di Cosa Nostra. E Milano e Roma, senza alcun tentennamento, accettano subito la proposta indecente di Palermo, anzi, ci si buttano a capofitto. Nella grande ristrutturazione (“modernizzazione”, l’ha chiamata molti anni dopo nel corso di un dibattito radiofonico l’ex presidente della Regione Rino Nicolosi), cambiano i rapporti di forze. E alla fine ne fa le spese lo stesso Siino: «Fu Di Maggio» racconta Bronson ai magistrati «che mi rimproverò per il ruolo che stavo assumendo nel controllare gli appalti e mi disse che da quel momento per qualsiasi appalto dovevo prima parlare con lui.»
Nasce così il sistema del tavulinu: Siino, continuando a far riferimento a Lima, si occupa soltanto degli appalti inferiori ai 5 miliardi e di tutti quelli, grandi o piccoli, della provincia di Palermo; per i lavori sopra i 5 miliardi scatta il sistema Salamone. Attorno a u tavulinu si siedono gli imprenditori, si siedono i politici. E si siedono i mafiosi: soprattutto Nino Buscemi e Giovanni Bini, che riferivano direttamente a Riina. Salamone, scrivono i magistrati di Palermo, è “l’organizzatore del comitato d’affari costituito da imprenditori e politici che ha gestito per lungo tempo incontrastatamente, fino all’ingresso nel sistema di Cosa Nostra, l’illecita spartizione degli appalti sull’intero territorio nazionale”.
Dopo la svolta, pur di mantenere la sua posizione e il controllo dei grandi appalti, Salamone “ebbe ad allacciare rapporti assai stretti con i Corleonesi, ponendosi sotto la loro ala protettrice”. Costituisce così “per volontà di Salvatore Riina, con Antonino Buscemi e Giovanni Bini, una sorta di comitato d’affari sovraordinato, da cui veniva decisa, di comune accordo con politici e imprenditori, la spartizione dei grandi appalti”.
Riina, vero padrone finale del sistema, su ogni lavoro impone una percentuale dell’1 per cento, poi ridotta (bontà sua) allo 0,80 per cento, che gli viene passata da Salamone, il quale diventa il gestore del metodo. L’addizionale Riina viene pagata da Salamone nelle mani di Giovanni Brusca, che se ne occupa personalmente dopo che Siino viene arrestato, l’11 luglio 1991, dopo la prima timida indagine sulla Tangentopoli siciliana. In un interrogatorio reso il 13 agosto 1997, Siino racconta che presso la sede di Agrigento dell’azienda di Salamone, l’Impresem, nella stanza di un impiegato attigua a quella del socio Micciché, era conservato uno schedario dove venivano segnati i pagamenti delle tangenti: “2000 lire” significava 20 milioni; l’annotazione accanto era: “spese postali”.
Forse per invidia, forse per altro, Salamone e il suo socio Micciché non erano proprio stimati nell’ambiente degli imprenditori: si sussurrava che il loro successo era dovuto non alle capacità ma alle amicizie (pericolose). Un costruttore siciliano inserito nel sistema Siino, Lorenzo Rossano, ha dichiarato che in Sicilia «si parlava molto male di Salamone e ancor di più del suo ex socio Micciché. Entrambi venivano definiti scarsi muratori…».
Arrivano dal Nord
Alla festa siciliana dei lavori pubblici, insieme a politici e mafiosi, partecipano senza batter ciglio, tra gli altri, la Fiatimpresit del gruppo Agnelli, la Lodigiani di Milano, antica e un tempo rispettabile azienda edile, la Rizzani De Eccher di Udine, la Tor Di Valle e la Federici di Roma, le cooperative rosse emiliano-romagnole. Così fan tutti. E così ha fatto anche il gruppo Ferruzzi. Nella spartizione della torta, una bella fetta era sempre riservata a un commensale speciale: le aziende del gruppo Ferruzzi di Raul Gardini. Un rapporto stretto, costante, durato per oltre quindici anni, quello tra il gruppo Ferruzzi e Cosa Nostra.
Come è nato? “Allo stato delle indagini” scrivono i magistrati di Palermo “non è dato conoscere se vi sia stata una molla scatenante che abbia indotto i maggiori rappresentanti di uno dei gruppi imprenditoriali più importanti del nostro paese a mettere totalmente e del tutto consapevolmente a disposizione di pericolosissimi esponenti di Cosa Nostra la loro struttura, il credito acquisito presso il sistema bancario, il loro prestigio.” Certo è che si firma una sorta di joint venture Ferruzzi-Cosa Nostra. È la famiglia Buscemi, mandamento di Boccadifalco, a stringere concretamente l’accordo. In forza di questo, il gruppo di Gardini si garantisce l’incontrastato sfruttamento delle cave in Sicilia, diventa il fornitore monopolistico di cemento nell’isola, conquista una fetta degli appalti pubblici. Le società operative che scendono in campo sono soprattutto la Calcestruzzi SPA, la CISA, la Gambogi.
Confessa Siino: «Sono a conoscenza di un accordo tra Buscemi Antonino e il gruppo Ferruzzi, nella persona di Raul Gardini, tramite Panzavolta Lorenzo». Che personaggio, Panzavolta detto Panzer: nato a Ravenna nel 1922, partigiano, ex dirigente delle cooperative rosse emiliano-romagnole, stimato dal vecchio Serafino Ferruzzi, usato dal giovane Raul Gardini. Panzer bada ai risultati: per raggiungerli, al Nord paga mazzettoni, al Sud si allea con la mafia.
E che alleanza. Nel 1982 Panzavolta comincia con l’acquisire da Buscemi il 40 percento della cava Occhio, con sede a Palermo. Poi, quando nell’ottobre 1984 Buscemi e i suoi amici ricevono un mandato di cattura e sentono odore di sequestro dei beni (per mafia, in forza della legge Rognoni-La Torre), chiedono aiuto a Ravenna e Ravenna prontamente interviene: la Calcestruzzi Palermo SPA (di Buscemi e Bini) viene acquistata dalla Calcestruzzi SPA (di Gardini), ma a comandare restano i boss. Il gruppo Ferruzzi diventa tecnicamente socio e prestanome di Cosa Nostra.
Ma succede anche il contrario. L’imprenditore Vincenzo Piazza, il costruttore e riciclatore vicino al boss Angelo La Barbera che ha subìto la più grossa confisca mai realizzata in Italia (duemila miliardi), acquista a Palermo un capannone industriale dalla società Frigo Tecnica Zerilli e vi manda una squadra di suoi operai per realizzare la ristrutturazione. Ma che cosa scoprono, con stupore, gli investigatori del GICO palermitano della Guardia di finanza? Che l’acquisto, fatto per conto di La Barbera, è stato realizzato in realtà non da Piazza, ma da una società del gruppo Calcestruzzi. Succede anche questo, nella Palermo del tavulinu: un imprenditore mafioso, Piazza, fa da schermo a una rispettabile ditta del gruppo Ferruzzi…
La Calcestruzzi non è un’azienda qualunque, è la prima produttrice di calcestruzzo in Italia, che è il paese che consuma più calcestruzzo in Europa. Scrivono i magistrati palermitani: “Non risultano acquisiti elementi per affermare né per escludere che Salvatore Riina abbia investito propri capitali nelle attività imprenditoriali del gruppo Ferruzzi”; né per affermare né per escludere. Certo è, continuano, che “Gardini e Panzavolta ben sapevano di legare le loro sorti a quelle di soggetti di cui conoscevano l’influenza e il carisma nel contesto mafioso palermitano e anzi ritenendo proprio per questo di potere più facilmente introdursi nel difficile mercato siciliano”.
Giovanni Brusca ha le idee chiare, a proposito del tavulinu e dei rapporti tra Gardini e Cosa Nostra. Racconta: «Il monopolio dei grandi appalti in Sicilia era detenuto dalla Impresem di Salamone. Una quota dei grandi appalti era previsto fosse affidata alle imprese direttamente riconducibili a Cosa Nostra». Poi Brusca fa l’elenco di queste aziende «direttamente riconducibili»; la prima: «Gruppo Ferruzzi, facente capo ai Buscemi di Passo di Rigano». Forse un po’ impreciso dal punto di vista dei libri soci e degli organigrammi societari, ma certo adererente alla sostanza delle cose, ben conosciute da Brusca. Che ribadisce: dopo la riorganizzazione del sistema, «la quota dei grandi appalti spettante a Cosa Nostra ci venne attribuita per il tramite delle società facenti parte del gruppo Ferruzzi».
Raul Gardini, in verità, quando si accorse del gioco sporco in cui l’aveva cacciato Panzavolta, cercò di uscirne. Tentò addirittura di vendere la Calcestruzzi. Non ci riuscì: Panzavolta andò dalla famiglia Ferruzzi, si fece forte del rapporto che lo legava con il vecchio Serafino, e tutto andò avanti come prima.
La tomba più sontuosa
Non è chiaro come iniziò l’avventura siciliana di Gardini. Siino la spiega così: avvenne «a seguito del trafugamento della salma di Serafino Ferruzzi». Questa sparì dalla tomba più sontuosa del cimitero di Ravenna nel 1987 e, secondo Siino, i Ferruzzi si rivolsero agli uomini di Cosa Nostra, proprio i Buscemi, per cercare di recuperarla. Il tentativo non diede alcun risultato, ma «Raul Gardini rimase assai grato ai Buscemi e si mise a disposizione per aggiustamenti di processi grazie alle amicizie che vantava fra i politici».
La politica: racconta Siino che Buscemi non fece fatica a convincere Riina a passare al nuovo sistema degli appalti, sventolandogli sul grugno una duplice promessa. Il rapporto con Gardini innanzitutto avrebbe portato soldi. Ma poi avrebbe potuto generare anche nuovi e utili rapporti politici: mentre si smagliava l’alleanza con la DC di Lima e Andreotti, e non era ancora stato pensato il partito nuovo su cui puntare, era il PSI il possibile alleato da sondare; e Gardini era considerato un buon ponte per arrivare ai vertici del Partito socialista, a Claudio Martelli e Bettino Craxi.
Tanto è vero che Siino – lui almeno racconta così – nel corso della campagna elettorale del 1987 ricevette la visita di Martelli, candidato a Palermo (che ha però sempre smentito): «Nella mattinata si presentò a casa mia l’onorevole Martelli che dopo i convenevoli di rito e apprezzamenti sui quadri alle pareti del mio appartamento, cominciò a parlare di politica giudiziaria e della sua linea garantista». Alla fine non se ne fece niente, anzi, Martelli nei primi anni novanta fu considerato un traditore perché dopo aver preso i voti mafiosi aveva sposato la linea antimafia di Giovanni Falcone; ma sul finire degli anni ottanta la speranza di trovare nuovi referenti politici nel PSI era ancora viva, e passava per i rapporti con Gardini e i suoi. Poi arrivò la bufera di Mani pulite. E la mappa della politica e degli affari dovette cambiare radicalmente. Non senza contraccolpi per il terzo commensale, Cosa Nostra.
Palermo, Italia
Il sistema del tavulinu siciliano è ben inserito nel sistemone nazionale ed è in relazione con il sistema Milano. Cambiano i gestori locali, ma i soggetti politici e industriali (e criminali, quando si impongono) sono gli stessi. I diversi sistemi si influenzano a vicenda, esigono compensazioni reciproche. È la globalizzazione (all’italiana) dell’illegalità: Palermo chiama, Milano risponde, Roma abbozza. E viceversa.
Così, per esempio, il costruttore siciliano Filippo Salamone non è certo confinato in periferia, inchiodato al tavulinu siciliano. Ha ottimi contatti con tanti protagonisti centrali del mondo della politica e degli affari. Con il banchiere Chicchi Pacini Battaglia, per esempio, o con l’imprenditore Filippo Maddaloni. Di Chicchi, Salamone era cliente: suoi denari sono transitati su conti della Karfinco, poi diventata Banque des patrimoines privèes. Di Maddaloni, era addirittura socio: nella società TIV (joint venture tra TPL di Maddaloni, Impresem di Salamone, Vita costruzioni di Antonio Vita).
Maddaloni è uno dei tanti personaggi della Tangentopoli Uno e anche della cosiddetta Tangentopoli Due. Neanche tanto minore, se si pensa che la sua TPL ha formato ben 52 miliardi di fondi neri e, secondo le dichiarazioni di Sergio Cragnotti, ha sborsato un miliardo di tangente al supermanager delle Ferrovie dello Stato Lorenzo Necci. Ebbene, nell’agosto 1990 la TPL si allea con Salamone: nello studio del notaio di Agrigento Mariella D’Angelo (per la cronaca: sorella della moglie di Fabio Salamone, fratello dell’imprenditore e magistrato che da Brescia farà la guerra ad Antonio Di Pietro) viene costituita la TIV, con l’obiettivo di costruire un impianto di dissalazione dell’acqua di mare nella provincia di Trapani.
Quanto a Pacini Battaglia, questi si vanta, in una delle sue tante telefonate, di aver passato un certo numero di miliardi a Filippo Salamone: battuta? millanteria? Chissà. Ma se fosse vero, si aggiungerebbe un ulteriore mattone all’intricata storia in cui si incrociano i destini di Filippo Salamone, costruttore, di suo fratello Fabio Salamone, magistrato, di Pacini Battaglia, banchiere, e di Antonio Di Pietro, magistrato, che nel 1993 indagò Filippo e nel 1996 fu indagato da Fabio.
La Milano della finanza e dell’economia, dell’industria e dell’informazione, della Borsa e della Fiera sembra non aver imparato niente dal suo passato. Ha subìto senza batter ciglio le scorribande di Sindona prima, di Calvi poi, grandi riciclatori di Cosa Nostra. Ha seppellito senza una lacrima l’avvocato Giorgio Ambrosoli, l’“eroe borghese” ucciso da un killer venuto dall’America. Dopo tutto ciò, all’inizio del secondo millennio Milano si sveglia e scopre che gli uomini di punta di due grandissimi gruppi privati italiani (Ferruzzi e Fininvest) sono sotto accusa a Palermo per mafia. Nessuno mostra di scandalizzarsi, nessuno di stupirsi.
In questa città che fa convegni sponsorizzati su tutto, nessun convegno o seminario o dibattito o tavola rotonda o studio o riflessione è stato organizzato sui rapporti tra economia e illegalità. La comunità finanziaria non muove un muscolo, distilla i soliti veleni (off the records, of course), aspetta il prossimo caso. Nessuno sembra mostrare non dico preoccupazione, ma almeno curiosità di capire quello che è successo (che sta succedendo?) sotto i nostri occhi.
Se poi qualcuno dice: attenti, il sistema-moda è a rischio mafia, il riciclaggio passa per finanziarie insospettabili, perfino i terroristi islamici possono essere clienti rispettati di qualche studio del centro che non sta certo a giudicare l’odore dei soldi – le reazioni sono identiche, venti, trent’anni dopo, nella civilissima Milano, a quelle dei notabili siciliani che strillavano, indignatissimi: fuori le prove, fate i nomi, non gettate fango, non danneggiate l’economia italiana, il made in Italy. Forse Raul Gardini, corsaro irresistibile, che ha voluto almeno pagare il saldo finale delle sue scelte, è davvero morto invano.
Tratto dal libro:
Gianni Barbacetto
Campioni d’Italia
Storie di uomini eccellenti e no
Prefazione di Enrico Deaglio
Tropea | 2002