Bobo, il leghista bifronte che si veste da moderato (per Palazzo Chigi?)
Se ne va dal grattacielo di Palazzo Lombardia vantandosi di essere un uomo che ha governato e che sa governare. Chissà se Roberto Maroni si riferisce a quello che è successo il 13 luglio 1994, quando era ministro dell’Interno del primo governo Berlusconi: quel giorno firmò il “decreto salvaladri” che liberava gli indagati di Tangentopoli. Tre giorni dopo, con il Paese insorto contro il decreto, dichiarò, pallidissimo, al Tg3: “Mi hanno ingannato, imbrogliato, mi hanno fatto leggere un testo diverso da quello che poi mi hanno dato da firmare. Biondi mi aveva giurato che non sarebbero usciti i tangentisti, i De Lorenzo. Mi sono fidato, ho fatto male. Chiedo alla Lega non di emendare il decreto, ma di respingerlo in blocco”.
Se ne va da presidente della Regione presentandosi come uomo delle istituzioni. Chissà se si riferisce a quanto accaduto il 18 settembre 1996, quando si scontrò con i poliziotti mandati a perquisire la sede milanese del Carroccio di via Bellerio e tentò di addentare la caviglia a un agente: il gesto gli è costato una condanna definitiva a 4 mesi e 20 giorni per resistenza a pubblico ufficiale.
Bobo Maroni è un leghista bifronte, che si mostra ragionevole ed equilibrato quando indossa i panni ministeriali, ma che si trasforma quando deve parlare alla pancia della Lega. Nel 1996 indossa i panni di portavoce del Clp (Comitato di liberazione della Padania), annuncia la costituzione delle Camicie Verdi e lancia la disobbedienza civile a Roma: “La strategia della Lega è quella di ottenere l’indipendenza della Padania”.
Moderato? Nel 2005 se la piglia con l’Europa. Dopo un vertice Ue deludente, dichiara: “L’Europa ha chiuso per fallimento”. E propone di tornare alla lira. Gli alleati del centrodestra gli rispondono: “È una provocazione bizzarra”. Ma Bobo non molla e annuncia il ricorso al popolo: “Il 19 giugno, a Pontida, la Lega inizierà la raccolta delle firme per una consultazione popolare”. Poi minaccia: “Siamo solo all’inizio; aspettate Pontida e ne vedrete delle belle”.
Ha fama di leghista dal volto umano. Eppure non le manda a dire neppure sull’immigrazione: “La sinistra italiana ci rompe le palle”, urla a Pontida, tra gli appalusi, nel 2008, difendendo l’introduzione del reato d’immigrazione clandestina. “Sulla sicurezza vengono raccontate solo balle… La tolleranza zero è il nostro obiettivo. Ci accusano di essere diventati un Paese razzista e xenofobo: sono palle di chi non vuole accettare il fatto che con noi al governo la musica è cambiata”. Nell’edizione 2009 di Pontida lancia ai presidenti di seggio dell’imminente referendum elettorale – ed era ministro dell’Interno! – un avvertimento che è quasi un’intimidazione: “Non facciano i furbi: devono spiegare ai cittadini anche la possibilità di non ritirare la scheda”. Poi difende le ronde: “Ebbene sì, vogliamo le ronde: ci hanno accusato di voler far tornare le camicie nere, ma noi guardiamo alla sostanza, non alle chiacchiere”.
Ondivaghi anche i suoi rapporti con Umberto Bossi, che già nel 1995 lo descrive così: “È uno che tira il sasso e nasconde la mano”. Pochi mesi prima, Bobo era stato fischiato e insultato al congresso straordinario della Lega, al Palatrussardi di Milano, perché ministro e vicepresidente del governo Berlusconi che Bossi aveva deciso di far cadere. “Chi tradisce sarà spazzato via dalla faccia della terra”, tuonò il Senatur, “sappiamo che c’è stato il mercato delle vacche e un po’ di gente ha preso la stecca”. Bobo rischia il linciaggio e si salva soltanto perché viene scortato fuori da Roberto Calderoli, mentre l’Umberto continua: “Una Lega bis, caro Roberto, sarebbe uno specchietto per le allodole. Il coraggio, se non lo si ha, non lo si può comprare al supermercato”. La mattina dopo Maroni sale su un volo per le Maldive dove rimane due settimane, insieme alla silenziosa e paziente moglie, Emilia Macchi.
Nel 2012 si prende la rivincita: il partito è perso tra i diamanti in Tanzania del tesoriere Francesco Belsito e le lauree in Albania di Renzo Bossi il Trota e a Bergamo i suoi “Barbari Sognanti”, con le scope in mano, fanno fuori Bossi e impongono Bobo alla segreteria del partito, poi consegnato, 18 mesi dopo, a Matteo Salvini. Per non essere oscurato dalle felpe e dalle ruspe di Salvini, nel 2015 risfodera gli slogan anti-immigrati: “Ridurrò i trasferimenti regionali ai sindaci che accolgono nuovi migranti”. Dimenticando di aver messo la sua firma, quando era ministro dell’Interno, sotto un documento che impegnava le Regioni a distribuirseli, i migranti. Ora ha indossato i panni di Riserva della Repubblica. Punta sulla vittoria di Berlusconi e sulla sua necessità di trovare, dopo le elezioni, un leghista bifronte dal volto umano. (Il Fatto quotidiano, 10 gennaio 2018)
Il risiko (a destra) delle Regioni
A rimetterci, per ora, è stato Dudù: “Ha fatto ‘cai, cai’, qualcuno lo ha schiacciato mentre facevamo la foto finale… mi pare Matteo Salvini”. Così Giorgia Meloni, leader di Fratelli d’Italia, racconta il finale della riunione di Arcore in cui è stato avviato il grande risiko delle candidature del centrodestra. Sarà una partita lunga. Intanto l’unica scelta già fatta è che Attilio Fontana prenderà il posto di Roberto Maroni come candidato in Lombardia. Silvio Berlusconi ha dovuto fare un po’ finta di sostenere la candidatura di Mariastella Gelmini, ma il patto con Maroni era già deciso: Bobo, in un colpo solo, disinnesca una mina a Milano (l’eventuale condanna nel processo che ha in corso avrebbe fatto scattare la sua sospensione da presidente della Regione, causa legge Severino) e si tiene pronto per incarichi importanti a Roma (ministro di peso o addirittura presidente del Consiglio, d’intesa con Berlusconi).
Risultati: a Salvini girano le ruspe e Dudù vorrebbe non solo schiacciarlo per sbaglio, ma farselo allo spiedo. Ora dovranno essere decisi i candidati presidenti delle altre due regioni importanti in cui si voterà, Lazio e Friuli Venezia Giulia. Per la prima, la scelta dovrebbe cadere su Maurizio Gasparri. Nella seconda, i giochi sono ancora aperti: Forza Italia vorrebbe il suo colonnello locale, Riccardo Riccardi, che dovrebbe battersi con il pd Sergio Bolzonello, il vice di Debora Serracchiani (che non si vuole ricandidare). Ma la Lega spinge per un candidato più forte, Massimiliano Fedriga, capogruppo del Carroccio alla Camera, leghista gentile e volto televisivo, che sondaggi riservati danno avanti di 4 o 5 punti rispetto a Riccardi, alla soglia del 40 per cento, con il centrosinistra in Friuli poco sopra il 30 e i Cinquestelle inchiodati alle regionali al 24 (andranno meglio alle politiche, dove in regione potranno raggiungere o superare il 30 per cento).
La partita centrale resta quella in Lombardia, dove Fontana viene sottovalutato dal Pd, che crede che senza Maroni si riapra la gara per il suo candidato Giorgio Gori. “Ma Fontana non ha mai perso un’elezione”, dice chi lo conosce bene. Avvocato, volto moderato del Carroccio, fama di buon amministratore (sindaco a Induno Olona e poi a Varese), sa parlare anche ai non leghisti, benché sia una vecchia volpe della politica, con sei anni passati al Pirellone come presidente del Consiglio regionale. Suoi vezzi, la Porsche Carrera con cui girava per Varese e le mazze da golf che appena può mette alla prova sul green, il verde che preferisce a quello delle cravatte esibite da tanti suoi colleghi di partito. (Il Fatto quotidiano, 11 gennaio 2018)