Sentenze a Bologna. Un colpo all’album di famiglia di Giorgia
Negli ultimi giorni sono arrivate la condanna in appello a Paolo Bellini e la conferma in Cassazione della condanna a Gilberto Cavallini: due sentenze che riguardano la strage di Bologna del 2 agosto 1980 e che, dopo le condanne già definitive a Giusva Fioravanti, Francesca Mambro e Luigi Ciavardini, blindano la lettura del più grave attentato terroristico mai compiuto in Italia.
È stato un attacco politico-eversivo che fa parte di una lunga catena iniziata il 12 dicembre 1969 in piazza Fontana a Milano. È stata una strage realizzata dai neofascisti entrati in azione a Bologna con due gruppi di fuoco. È stata un’operazione finanziata, coperta e depistata da apparati dello Stato nel quadro geopolitico del mondo diviso in due blocchi, con la partecipazione attiva della P2 di Licio Gelli che era la custode, dentro e fuori le istituzioni, degli inscalfibili equilibri atlantici.
Le due sentenze confermano dunque l’esistenza, nel sottosuolo della storia italiana, di una invisibile linea nera che interviene a minacciare e condizionare la politica con operazioni coperte, azioni illegali (e criminali) legittimate dai rapporti internazionali e realizzate da “agenzie” di volta in volta tollerate, nutrite, utilizzate da apparati statuali: gruppi neofascisti (specialmente Ordine nuovo e Avanguardia nazionale), supergruppi criminali (come la banda della Magliana), organizzazioni mafiose (come Cosa nostra, ma anche la ’ndrangheta, attive dal progettato golpe Borghese del 1970, alla strage di Natale del 1984, fino alla nuova strategia della tensione del 1992-94).
Per comprendere davvero la storia italiana è necessario allora scendere sotto le onde della politica e calarsi negli abissi delle vicende segrete della Repubblica. È questo il cuore nero con cui bisogna fare i conti. A quelle profondità, è inevitabile incontrare storie, personaggi, apparati che arrivano fino al nostro presente. In nome dell’anticomunismo e della fedeltà atlantica sono stati commessi nel nostro Paese “crimini inconfessabili” (come argomenta fin dal titolo il nuovo libro di Giuliano Turone edito da Fuoriscena) con cui è difficile fare i conti ancora oggi.
È questo il nervo scoperto dell’attuale maggioranza di governo: non tanto il rapporto con il fascismo storico, che sopravvive per lo più come nostalgia di chi tiene in salotto la paccottiglia dei busti di Mussolini o va a rendere omaggio ai caduti di Salò al servizio degli occupanti nazisti; ma il rapporto con la storia nera del dopoguerra.
È quella con il neofascismo la rottura che sarebbe necessaria. Invece il pantheon di Giorgia Meloni ospita “padri” come Pino Rauti, fondatore di Ordine nuovo, da cui esce alla vigilia della strage di piazza Fontana quando rientra nel Msi sostenendo, con rara preveggenza, che era tempo di “aprire l’ombrello”. E come Giorgio Almirante, leader di quel Msi che è stato il partito che ha dato via via ospitalità e seggi in Parlamento a tanti protagonisti dei servizi segreti e della strategia della tensione (alcuni iscritti anche alla P2), da Junio Valerio Borghese a Sandro Saccucci, da Giovanni De Lorenzo a Vito Miceli, da Gino Birindelli a Mario Tedeschi.
Proprio quest’ultimo, piduista e senatore missino della destra “moderata e in doppio petto”, è indicato dalla sentenza Bellini come uno degli organizzatori della strage di Bologna, come colui che aveva l’incarico di gestire la “comunicazione” dopo l’attentato, in coppia con Federico Umberto d’Amato, la superspia dell’Ufficio Affari Riservati. Almirante è lo stesso che fa arrivare 34.650 dollari, attraverso l’avvocato missino Eno Pascoli, a Carlo Cicuttini, uno dei responsabili della strage di Peteano (tre carabinieri uccisi) per finanziare e proteggere la sua latitanza in Spagna.
È questo l’album di famiglia della destra di governo, la “comunità politica” da cui Giorgia Meloni dichiara con orgoglio di provenire.