Addio a Ferdinando Pomarici, magistrato rigoroso ed elegante
Se n’è andato in silenzio, Ferdinando Pomarici, magistrato. Elegante, ammirato dalle signore, amante dello sport, calcio, tennis, sci. Motociclista, appassionato di auto sportive. Rigoroso, riservato, lontano dai riflettori. Ma sempre cordiale. Si è spento a 82 anni, dopo una carriera che avrebbe meritato incarichi e onori che sono invece andati ad altri, meno silenziosi e più abili nelle relazioni.
Si occupò dei rapimenti messi a segno dall’Anonima sequestri e praticò il “blocco dei beni” alle famiglie dei rapiti, per impedire i pagamenti del riscatto. Quella fermezza provocò polemiche, ma contribuì a far cessare i sequestri di persona. Con la medesima fermezza affrontò le indagini su terrorismo e Br, riuscendo, con tanti altri colleghi, a debellare il fenomeno.
Sostenne l’accusa contro Adriano Sofri e Lotta continua nel processo per l’omicidio del commissario Luigi Calabresi, e non si curò delle critiche che si era attirato. Lo stesso rigore con cui aveva trattato banditi e terroristi lo impiegò per dipanare la matassa ingarbugliata della strana scomparsa da Milano di un imam egiziano, chiamato Abu Omar.
Insieme ad Armando Spataro (che ripeteva spesso: Pomarici “è il mio fratello maggiore”) scoprì e mandò a processo una squadra di agenti della Cia che aveva compiuto a Milano una “extraordinary rendition”, l’unica al mondo che vide condannati i responsabili. Non quelli italiani del servizio segreto militare, che furono salvati dal segreto di Stato.
Vinceva molte partite di tennis, perse (con Edmondo Bruti Liberati) la partita per diventare procuratore di Milano. In un’intervista al Fatto, ricordando le inchieste su Abu Omar e sulle Br, disse: “Se non si riconosce agli indagati i diritti civili, la lotta al terrorismo è un fallimento”.