1994, Di Pietro lascia la magistratura. La guerra dei 30 anni contro Mani pulite
“Spegnete i computer”, scandisce in aula il pm Antonio Di Pietro. Si oscura il maxischermo su cui aveva proiettato la sua requisitoria telematica per il processo Enimont (“la madre di tutte le tangenti”). Sono le 16.43 del 6 dicembre 1994, trent’anni fa. Di Pietro si sfila la toga, riannoda la cravatta, infila la giacca ed esce in silenzio dall’aula. Poi consegna ai giornalisti il testo della lettera che ha scritto al procuratore Francesco Saverio Borrelli in cui annuncia le sue dimissioni dalla magistratura.
Era al massimo della sua fama. Era stato per 1.024 giorni il simbolo di Mani pulite. Aveva individuato il sistema della corruzione su cui si reggeva la Prima Repubblica. Era Tangentopoli, la politica dei partiti che si finanziava illegalmente con le tangenti, facendo gonfiare i costi delle opere pubbliche e deragliare i conti dello Stato. Fino a quel 6 dicembre, l’inchiesta aveva già coinvolto 2.500 indagati, di cui 600 arrestati. Aveva scoperto mazzette per molte centinaia di miliardi di lire. Aveva già recuperato e sequestrato 273 miliardi. Un sondaggio di quei giorni rivela che il 71 per cento degli italiani, in caso di elezione diretta del presidente della Repubblica, avrebbe votato Di Pietro. Solo il 29 per cento avrebbe scelto Silvio Berlusconi, che da qualche mese era diventato presidente del Consiglio, sostituendo il sistema dei partiti punito dagli elettori.
Di Pietro si toglie la toga e scompare per un mese. A metà dicembre sposa a Curno, un paese a un passo da Bergamo, dove vive, Susanna Mazzoleni, con la quale convive da anni.
La sua lettera a Borrelli dice: “Carissimo signor Procuratore, in questi anni, come lei mi ha insegnato, ho lavorato nel modo più obiettivo possibile… Non ho mai perseguito finalità diverse da quelle di giustizia”. Confida un disagio: “Mi sento usato, utilizzato, tirato per le maniche, sbattuto ogni giorno in prima pagina sia da chi vuole contrappormi ai suoi nemici, sia da chi vuole così accreditare un inesistente fine politico in ciò che sono le mie normali attività”. Dichiara l’intenzione “di spersonalizzare l’inchiesta Mani pulite, nella speranza che, senza di me, le passioni, che la mia persona può avere involontariamente acceso intorno alla normale dialettica processuale, si plachino. Lascio quindi l’ordine giudiziario, senza alcuna polemica, in punta di piedi, quale ultimo ‘servizio’, con la morte nel cuore e senza alcuna prospettiva per il mio futuro, ma con la speranza che il mio gesto possa in qualche modo contribuire a ristabilire serenità”.
Scene da una ritirata
Perché se ne va, Di Pietro? Uno dei suoi colleghi del pool Mani pulite, Piercamillo Davigo, interpreta la sua lettera come quella “di un uomo disorientato, che non ha ancora capito chi sono i suoi amici e chi i suoi nemici”. Il procuratore Borrelli si dichiara commosso: “Siamo tutti debitori di immensa riconoscenza per il lavoro svolto in anni che rimarranno scritti a lettere d’oro nella storia della magistratura. Prendo atto con pensoso e addolorato rispetto di una decisione che non ho titolo per contrastare e che è certamente sorretta da motivazioni forti e gravi”. Ma dietro la facciata, Borrelli e i colleghi del pool sono preoccupati. Qualcuno, anzi, è decisamente arrabbiato e considera le dimissioni un vero e proprio tradimento.
L’inchiesta Mani pulite era al suo culmine. “Di Pietro ha i giorni contati”: così dice un messaggio minaccioso arrivato a giugno 1994 e firmato Falange armata, ambigua sigla spuntata nelle stagione delle stragi di mafia del 1993 e che qualcuno considera espressione dei servizi segreti. Nei mesi successivi, parte il grande attacco a Mani pulite. Sbarcano a Milano gli ispettori del ministero della Giustizia, per interrogare Di Pietro su presunti abusi nelle indagini e su presunte scorrettezze che avrebbe compiuto nella sua vita privata. Si preparano manovre e dossier contro di lui, con notizie vere mischiate ad accuse false, al fine di infangarlo e di screditare Mani pulite.
Il 22 novembre, il pool aveva mandato un invito a comparire in Procura a Silvio Berlusconi: i magistrati avevano scoperto quattro tangenti pagate da aziende di Berlusconi alla Guardia di finanza per addolcire quattro verifiche fiscali. Di Pietro era il magistrato che lo avrebbe dovuto interrogare. Dice a Borrelli: “Io quello lo sfascio”. Ma poi il 26 novembre Berlusconi non si presenta all’interrogatorio. Domenica 27, in un palazzo di giustizia semideserto, Di Pietro, accompagnato da Davigo, dà la notizia, ancora segreta, a Borrelli: “Lascio il pool, appena finita la requisitoria del processo Enimont”. Quella sera, nuovo messaggio della Falange armata: “Di Pietro è un uomo morto”. Il 1° dicembre, Borrelli tenta di fermarlo: “Se te ne vai proprio in questo momento, poco prima dell’interrogatorio di Berlusconi, la tua sarà una vera e propria defezione”. Di Pietro è irremovibile. Il 6 dicembre, il pm simbolo di Mani pulite si toglie la toga.
Il “trappolone”
Di Pietro racconta così il clima di quei mesi: “Quell’addensarsi di segnali inquietanti e di dossier anonimi lasciava presagire una lunga stagione di accuse, certamente disciplinari, fors’anche penali. Si era già cominciato, a Brescia”. Lì erano arrivate le denunce di due indagati da Di Pietro, il generale della Guardia di finanza Giuseppe Cerciello e il finanziere Sergio Cusani. Finiranno in nulla, ma intanto il clima si fa pesante.
“Meglio farmi da parte, pensai, e difendermi da normale cittadino. Per il bene mio e del pool. Così, facendomi piccolo piccolo, scarico l’arma in mano ai miei killer. Poi, quando ne sarò uscito pulito, magari tornerò. Intanto, mi metto in congedo, fuori ruolo”.
Contro Di Pietro si muove un mondo di ombre che lui fa fatica a riconoscere. Pezzi di servizi segreti, vecchi e nuovi amici di Bettino Craxi che Mani pulite aveva messo sotto processo, ma anche uomini dell’ambiente di Silvio Berlusconi, come Cesare Previti, che in un primo momento gli si presentano come amici che lo vogliono aiutare.
“È vero”, conferma anni dopo Di Pietro, “tutto immaginavo in quel momento tranne che il trappolone venisse dai berlusconiani: pensavo soltanto a Craxi e al suo giro, come reazione alla scoperta del suo ‘tesoro’ all’estero di cui avevamo scoperto le tracce. Invece c’erano anche Berlusconi e i suoi, che pure continuavano a farmi pervenire messaggi di stima e amicizia, a invitarmi a entrare nel Polo… L’ho scoperto troppo tardi”.
Seguiranno anni di indagini, attacchi, accuse, dossier, processi, campagne di stampa, intossicazioni, fango, per punire e zittire il magistrato che aveva scoperto Tangentopoli, il personaggio che compariva sulle prime pagine dei giornali di tutto il mondo come l’eroe che aveva ripulito l’Italia, l’uomo che il 71 per cento degli italiani voleva come presidente della Repubblica. La denigrazione di Mani pulite è continuata per decenni, insieme alla riabilitazione dei signori delle tangenti. È arrivata fino a noi, oggi, trent’anni dopo.