Una città senza opinione pubblica. Vietato parlare di urbanistica
Milano, una città rimasta senza opinione pubblica. L’ha sempre avuta, nella sua storia, dal “Viva Verdi” alla Scala nell’Ottocento alle proteste anni Ottanta contro Tangentopoli. Ed è stata una delle sue ricchezze. Perché era segno di vitalità, di incrocio fecondo di voci libere, di poteri – economici, politici, editoriali, culturali, scientifici, professionali, giudiziari, religiosi – che erano molteplici, dunque lasciavano emergere tante voci indipendenti che potevano dire la loro senza dover avere paura di perdere il lavoro o di compromettere la carriera.
Oggi non è più così. Lo ha segnalato, già qualche anno fa, Nando dalla Chiesa, sociologo (e non solo) che scriveva di “prove di mutazione socio-genetica”. Prima c’erano Giorgio Bocca ed Enzo Biagi, Indro Montanelli e Camilla Cederna, ma anche Carlo Maria Martini “e il vocione di padre Turoldo”. Ai tempi di Tangentopoli c’erano fior d’intellettuali, di destra e di sinistra, che facevano sentire le loro voci critiche in nome della “società civile”.
Piero Bassetti ragionava sulla città, come Guido Martinotti e tanti altri architetti, urbanisti, sociologi, uomini di scienza o di lettere o di arte. Oggi la Milano-del-nuovo-Miracolo-post-Expo è monocefala e monocorde, canta tutta la stessa canzone. Nessun dibattito, nessun confronto. Si è lasciata tutta incantare dalle magnifiche sorti e progressive, e adesso che è venuta l’ora della svolta e della crisi, è afona e senza idee.
Le inchieste della Procura di Milano sugli edifici ritenuti abusivi non sono un accidente giudiziario per manettari che tifano per il blocco dello sviluppo; sono il nodo arrivato al pettine di un modello di sviluppo malato, che andava discusso prima dell’arrivo della magistratura, che come al solito, come la nottola di Minerva che esce al tramonto, è costretta a intervenire a cose fatte perché prima non sono arrivate la politica, la buona amministrazione, il dibattito tra i professionisti, l’opinione pubblica.
Tranne poche, coraggiose eccezioni (ho in mente i nomi, ma per enumerarli bastano le dita delle mani), Milano non sa più discutere di se stessa e del suo futuro, narcotizzata da un successo fragile e strozzata dagli intrecci incestuosi di poteri che si stringono tra loro. Vietato discutere.
È mai possibile che nessuno senta la necessità di riflettere su una situazione che – abbiano ragione i costruttori e il sindaco, oppure i magistrati della Procura – comunque mette in discussione il modello di sviluppo della città, la sua economia, i suoi equilibri sociali, la sua capacità di offrire servizi e di produrre disuguaglianze? Nelle università, nelle professioni, nelle associazioni, nelle organizzazioni dei lavoratori e degli imprenditori non c’è nessuno che voglia discutere sul serio, senza schierarsi preventivamente in tifoserie organizzate da lobby e pr? Ne va del destino della città che amiamo. Ma invece è vietato discutere.
Vietato perfino il confronto soft proposto dal circolo Caldara di via De Amicis, che aveva invitato l’assessore all’urbanistica Giancarlo Tancredi a presentare il suo libro-album (Next_Milano. 2015-2030 urban regeneration) insieme a un architetto docente di composizione urbana, un ingegnere dell’Ordine di Milano, la presidente dei costruttori, un avvocato del settore, il presidente di una cooperativa edilizia e – ahimé – Veronica Dini, avvocato esperto di contenzioso ambientale e climatico che di solito difende i cittadini e le loro associazioni contro il Comune e i costruttori.
Dapprima è intervenuta Ada Lucia De Cesaris (ex vicesindaco ed ex assessore all’urbanistica e ora avvocata che invece li difende) a chiedere di cancellare Dini dagli interventi, poi è arrivata la decisione del sindaco Giuseppe Sala che prescrive un divieto mai visto: l’assessore non può partecipare a dibattiti pubblici. Solo incontri privati?
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