Robledo: “Quel lutto nazionale per Berlusconi è incongruo”
È dalle indagini iniziate da Alfredo Robledo (allora pm alla Procura di Milano) e Fabio De Pasquale che iniziò il processo concluso con la condanna definitiva a 4 anni per frode fiscale di Silvio Berlusconi.
Dopo la sua morte, è partito un processo di beatificazione. Lei condivide il lutto nazionale deciso dal governo?
No, avrei capito se fosse stato deciso per la morte di un servitore dello Stato, di un poliziotto che ha sacrificato la sua vita, o per un magistrato come Giovanni Falcone, oppure per un politico come Piersanti Mattarella. In questo caso invece è proprio incongrua.
Ora il governo e il ministro Carlo Nordio vogliono la riforma della giustizia, che vogliono dedicare a Silvio Berlusconi. Cominceranno con abolire l’abuso d’ufficio.
L’abuso d’ufficio ora è regolato in maniera macchinosa e poco efficace. Ma il principio resta una salvaguardia essenziale per i cittadini davanti a possibili comportamenti illegali della pubblica amministrazione. È una norma a tutela dei cittadini. Potrebbe essere utile modificarlo per renderlo più chiaro, ma abolirlo significa lasciare i cittadini senza una difesa di fronte alle azioni illegittime degli amministratori pubblici.
Nella “riforma Berlusconi” vogliono anche ridurre la possibilità di pubblicare le intercettazioni. Un nuovo bavaglio?
Io sono sempre per la libertà di stampa, purché non metta in pericolo le indagini. Va tutelata e garantita la possibilità che si formi una libera opinione pubblica, dunque io lascerei il compito di regolare la pubblicazione di notizie giudiziarie alla professionalità degli addetti all’informazione.
Altra proposta di riforma: abolire l’appello dopo un’assoluzione in primo grado.
Questo andrebbe bene in un sistema accusatorio nel quale il verdetto non è motivato. Ma nel nostro sistema c’è l’obbligo di motivare le sentenze. Dunque va lasciata la possibilità d’appello, perché non è detto che la prima sentenza sia giusta.
Sullo sfondo, c’è la volontà di arrivare alla separazione delle carriere.
È una fissazione degli avvocati e dei politici. Ma le frequentazioni d’ambiente resterebbero anche tra giudici e pm d’accusa con carriere separate. E poi di cosa parliamo? In tutto il mondo ove vige il sistema accusatorio, i procedimenti che vanno a giudizio non sono più del 10 per cento di tutti i procedimenti penali, come aveva previsto anche il padre del nuovo codice, Gian Domenico Pisapia. Così succede in Canada, in Regno Unito e Usa sono addirittura solo il 5 per cento. In Italia abbiamo invece in primo grado circa 1,5 milioni di processi, che andrebbero ridotti a 150 mila. La separazione delle carriere non ha dunque alcuna utilità di fronte al vero problema della giustizia italiana, che è quello dei troppi processi. Il nostro sistema processuale non è emendabile.
La legge Cartabia ha tentato di ridurne il numero.
La Cartabia è una legge criminogena. Consente di delinquere per un certo periodo di tempo senza rischi. Per ridurre i processi ha infatti ampliato il ricorso alla messa in prova senza carcere (che va bene per i reati bagatellari) a una quarantina di reati gravi, dalla violenza a pubblico ufficiale agli atti osceni sui minori, dall’induzione all’uso di stupefacenti ai minori alla falsificazione delle carte di credito, alla violazione di domicilio con violenza. Così consente di compiere questi reati per la prima volta senza alcuna conseguenza.
La separazione delle carriere rischia di annullare l’autonomia della magistratura dalla politica.
È ancor prima un attacco alla professionalità del magistrato. Io nella mia carriera ho fatto il giudice penale, il giudice civile, il pubblico ministero. L’esperienza di giudice è stata per me fondamentale quando ho rappresentato l’accusa, aggiungendo umanità ed equilibrio alla decisione: un conto è “chiedere” 10 anni, altro è “decidere” una condanna a 10 anni. Il rischio è di finire come nella Napoli prima di Murat, in cui magistratura e polizia erano la stessa cosa.