I ragazzini che mandarono a processo i dittatori argentini
Lucas Palacios aveva 27 anni nel 1985, quando fu chiamato a far parte della squadra che preparò il processo ai nove generali delle tre giunte militari argentine che tra il 1976 e il 1983 tennero il Paese sotto il giogo della dittatura provocando migliaia di “desaparecidos”. In questi giorni è ospite a Perugia di Encuentro, il festival delle letterature di lingua spagnola. La sua storia è raccontata anche nel film Argentina 1985 di Santiago Mitre, già candidato all’Oscar.
“Sì, avevo 27 anni, ma ero già sposato e avevo tre figli”, racconta Palacios al Fatto. “Ero un giovane impiegato ministeriale con un ruolo amministrativo, intanto studiavo Giurisprudenza. Nessuno dei magistrati e degli avvocati esperti aveva voluto lavorare per cercare prove contro Jorge Videla e gli altri ufficiali delle giunte militari. Allora la squadra dell’accusa fu messa insieme chiamando noi giovani impiegati. Eravamo cinque ragazzi, che poi diventarono otto, tre donne e cinque uomini. Eravamo tutti studenti, nessuno era ancora avvocato, io con i miei 27 anni ero il più anziano, i più giovani avevano 19 anni”.
Una squadra di ragazzini. Come iniziò la vostra avventura?
Il presidente Raùl Alfonsìn, caduta la dittatura, decise di mandare a processo i componenti delle giunte militari e, contemporaneamente, i capi della guerriglia di sinistra. L’avvocato Julio César Strassera, nominato procuratore della Corte federale d’appello penale e correzionale, fu incaricato di preparare il processo per i crimini contro l’umanità dei militari. Gli fu affiancato l’avvocato Luis Moreno-Ocampo, nominato procuratore aggiunto. Nessun altro magistrato accettò di istruire il processo. Non sapevamo come procedere, non avevamo esperienze precedenti da seguire, era la prima volta. Non avevamo mezzi né strumenti per lavorare, a parte il telefono fisso e i quaderni su cui scrivevamo tutto a mano. Il processo doveva essere fatto dai militari secondo il codice di giustizia militare, ma i tribunali militari non si muovevano. Allora il tribunale ordinario avocò il procedimento. La nostra squadretta aveva il compito di raccogliere le prove da portare in un processo orale, il primo che si svolgeva in Argentina. Noi giovani assistenti ci dividemmo i casi da seguire e i centri di detenzione segreti in cui erano stati imprigionati e torturati migliaia di persone. Abbiamo cominciato a girare il Paese in coppia e a convocare i possibili testimoni. Erano state presentate 9 mila denunce di persone scomparse. In quattro mesi e mezzo raccogliemmo centinaia di testimonianze e ne selezionammo 711 da portare in aula. Ci chiamarono “los chicos de Strassera”, i ragazzini di Strassera. Ma meglio ragazzini inesperti che persone compromesse con la dittatura.
Il processo si aprì il 22 aprile 1985. Lei intanto era cambiato.
Sì. Non sapevamo che cosa era davvero successo durante la dittatura. Nel Paese non si credeva alle torture e alle uccisioni. La madre di Moreno-Ocampo, per esempio, era una sostenitrice di Videla, come si vede nel film, e non voleva credere al figlio. Io stesso non sapevo e negavo. Pensavo che se qualcuno aveva subito violenze, era perché a sua volta aveva fatto qualcosa d’illegale. Sentendo i racconti dei testimoni, mi cadde la benda dagli occhi.
Si scoprirono i “desaparecidos”.
Il termine fu coniato da Videla, che in un’intervista disse che le vittime della dittatura non c’erano, non esistevano, non erano da cercare, erano persone scomparse: “desaparecidos”.
Come andò il processo?
I giudici ascoltavano con grande attenzione le testimonianze che sconvolsero tutta l’Argentina. Noi “chicos de Strassera” non potevamo parlare, stavamo seduti in aula tra Strassera e Ocampo e suggerivamo loro le domande da fare sui casi che conoscevamo bene. I due procuratori non potevano fare le domande direttamente ai testimoni, le facevano al tribunale, che poi le girava ai testi. A dicembre arrivò la sentenza. L’accusa chiese la condanna per tutti i componenti della giunta in solido, come responsabili di tutti i comportamenti criminali. Il tribunale invece volle dividere le posizioni: il generale Videla e l’ammiraglio Eduardo Massera furono condannati all’ergastolo, il generale Roberto Eduardo Viola a 17 anni, l’ammiraglio Armando Lambruschini a 8 anni. Quattro imputati furono assolti per insufficienza di prove.
C’era anche un pezzo di storia italiana, in quel processo: l’ombra della loggia P2 di Licio Gelli, a cui erano affiliati gli ufficiali golpisti.
Sì, ma questo non entrò nel processo. La P2 era conosciuta per le sue attività all’estero, ma non erano nota la sua influenza in Argentina. Comunque dopo la sentenza continuarono le pressioni e le minacce dei militari, tanto che si arrivò all’indulto.
Voi “chicos de Strassera” subiste pressioni e minacce?
Ricevevamo minacce, telefonate anonime, avvisi di attentati. All’ennesima telefonata che annunciava una bomba, una di noi, una ragazza, rispose: “Ci dispiace, le telefonate per le bombe le riceviamo dalle 9 alle 11, ora è tardi, richiami domani”. Avevamo entusiasmo e la forza dell’incoscienza. Non ci eravamo mai visti prima, ma siamo diventati subito un gruppo molto unito che lavorava in assoluta libertà.