Attentato alla Repubblica. Quell’autobomba del 2 giugno 1993
È il fatto anomalo, inspiegato, perturbante, del terribile anno delle bombe in cui morì la Prima Repubblica. La mattina del 2 giugno 1993, esattamente trent’anni fa, viene parcheggiata in via dei Sabini, a un soffio da Palazzo Chigi sede del governo, una Fiat 500 imbottita di esplosivo: una scatola di nitrato d’ammonio e un detonatore telecomandato. È il giorno della festa della Repubblica, da lì dovrà passare il presidente del Consiglio Carlo Azeglio Ciampi per andare a deporre una corona d’alloro all’Altare della patria. Alle 12,30 entrano in azione gli artificieri che con un robottino telecomandato mettono fuori uso l’esplosivo con un getto d’acqua ad altissima pressione. Le indagini stabiliranno che l’autobomba non poteva esplodere. Era un messaggio, un segnale, un avvertimento.
Sei giorni prima, il 27 maggio, un’autobomba era esplosa a Firenze, in via del Georgofili, e aveva fatto cinque morti. Cinquantacinque giorni dopo, nella notte tra il 27 e il 28 luglio, ci saranno le bombe di via Palestro, a Milano, e alle basiliche di San Giovanni in Laterano e San Giorgio al Velabro a Roma: altre cinque vittime, altri danni a gemme del patrimonio artistico del Paese di cui i viddani di Cosa nostra non conoscevano neppure l’esistenza.
Per tutti questi attentati è stata raggiunta la certezza giudiziaria che i pianificatori e gli esecutori siano uomini di Cosa nostra. È la “mafia stragista” che entra in azione per minacciare e trattare con lo Stato. Ma la Fiat 500 del 2 giugno? I mafiosi non ne sanno niente. Non è farina del loro sacco.
Ecco il perturbante (Das Unheimliche, per dirla con Freud) che viene a scardinare la ragionevole, tranquillizzante narrazione dell’attacco mafioso che realizza le stragi del 1993, dopo aver ucciso l’anno precedente Giovanni Falcone e Paolo Borsellino, ma viene infine individuato, scoperto, punito, sepolto sotto un buon numero di ergastoli. La Fiat 500 di via dei Sabini esce dal copione delle stragi di Cosa nostra. Chi ha messo l’esplosivo nell’auto? Chi l’ha portata a un passo da palazzo Chigi? Che messaggio voleva dare, e a chi? Sono domande che trent’anni dopo restano ancora senza risposta.
“In quel 1993 ci sono bombe che sono esplose e bombe che non dovevano esplodere”, ricorda Piero Grasso, allora sostituto procuratore presso la Procura nazionale antimafia. “Come quella del 2 giugno: doveva creare tensione. E certamente non è opera di Cosa nostra”. Alle 14 arriva una telefonata di rivendicazione all’Ansa di Napoli: è la Falange armata. Poi altre due telefonate smentiscono la prima: “La Falange armata siamo noi, gli altri non vi hanno dato il codice identificativo, che è 20181”.
Sigla misteriosa, la Falange armata, che rivendica anche le stragi di Firenze, Milano e Roma del 1993. In una stagione marchiata a fuoco da molti episodi eversivi, alcuni cruenti, altri solo dimostrativi, oggi quasi del tutto dimenticati, che restano ancora inspiegati e che stonano nella partitura “stragi di mafia”. Uno stillicidio della tensione, in quei mesi. L’episodio più oscuro accade la notte tra il 27 e il 28 luglio, mentre scoppiano le bombe a Milano e a Roma: a palazzo Chigi dalle 00,22 alle 3,02 si blocca inspiegabilmente il centralino telefonico.
Lo stillicidio prosegue nelle ore seguenti: una nota del Sismi del 29 luglio comunica che tra il 15 e il 20 agosto potrebbe essere realizzato un attentato a un personaggio di rilievo, Giovanni Spadolini o Giorgio Napolitano. Il giorno dopo viene ritrovato e disinnescato un ordigno nei pressi di Forte Boccea, il carcere militare romano in cui in quel momento è detenuto Bruno Contrada, numero tre del Sisde (il servizio segreto civile), accusato di concorso esterno in associazione mafiosa. Si diffondono voci incontrollate di un possibile attacco terroristico alla sede Rai di Saxa Rubra.
Il 18 settembre un’autobomba ferisce quattro carabinieri davanti alla caserma di Gravina di Catania. Il 21 settembre un ordigno esplosivo, privo di detonatore, viene trovato alla stazione Ostiense di Roma, sul treno “Freccia dell’Etna” Siracusa-Torino. Nella notte tra il 21 e il 22 ottobre, una miscela di pentrite esplode sul davanzale di una finestra del palazzo di Giustizia di Padova, provocando danni ma non vittime. La rivendicazione è firmata, ancora una volta, Falange armata.
Ciampi non ha dubbi. “Non esito a dirlo: ebbi paura che fossimo a un passo da un colpo di Stato. Lo pensai allora, e mi creda, lo penso ancora oggi”. Così dichiarò nel 2010. Il giorno dopo l’inspiegabile black-out di palazzo Chigi, decide a sorpresa di partecipare alla manifestazione del 2 agosto 1993 a Bologna, in ricordo della strage alla stazione, e quel giorno, nel suo intervento in piazza, dice: “È già stato travolto un immenso labirinto di interessi illegali, frutto delle degenerazioni della politica e dell’uso distorto delle risorse pubbliche. È questa svolta messa in atto, nel massimo ordine democratico, dai cittadini elettori, dai loro giudici, dal loro Parlamento, garantita dal capo dello Stato: è questo processo di vasto cambiamento l’obiettivo del nuovo terrorismo (…), è contro questa concreta prospettiva di uno Stato rinnovato che si è scatenata una torbida alleanza di forze che perseguono obiettivi congiunti di destabilizzazione politica e di criminalità comune”.
Le indagini su tutti gli episodi stragisti ed eversivi – compresa l’autobomba del 2 giugno, su cui aveva cominciato a indagare la Procura di Roma – vengono unificate a Firenze, dove era avvenuto l’attentato più sanguinoso. Se ne occupa l’allora procuratore della Repubblica Piero Luigi Vigna.
“Prende forma la pista dello ‘stragismo mafioso’”, commenta Gianfranco Donadio, ex magistrato della Direzione nazionale antimafia. “Cosa nostra viene identificata come l’organizzazione che esegue le stragi. Ma dalle indagini vengono via via espulsi tutti quegli elementi che non sono spiegabili con il solo intervento di Cosa nostra. L’autobomba del 2 giugno a palazzo Chigi, innanzitutto. Ma anche altro. La presenza del neofascista Stefano Delle Chiaie nei luoghi delle stragi. E la comparsa di donne operative nelle fasi preparatorie delle stragi di Firenze e Milano: donne che certamente non facevano parte dell’organizzazione Cosa nostra”.
Donadio la chiama “strategia dell’oblio”: “Vengono dimenticate le tracce non mafiose presenti nella stagione delle stragi. Me lo aveva detto anche il magistrato di Firenze Gabriele Chelazzi, che ha indagato a lungo su quella stagione: ‘Abbiamo commesso un errore di prospettiva’”.
Chi opera dunque durante la stagione delle stragi, oltre o accanto ai mafiosi? Una pista viene battuta: quella della Falange armata che rivendica le stragi e l’autobomba del 2 giugno. Le indagini non portano a risultati processuali, ma lasciano traccia di fatti inquietanti. Francesco Paolo Fulci, allora direttore del Cesis, l’organismo che coordinava i due servizi segreti, Sisde e Sismi, incarica un analista del Sisde, Davide De Luca, di studiare le telefonate di rivendicazione della Falange armata all’Ansa.
“Mi disse: questa è la mappa dei luoghi da dove partono le telefonate e questa è la mappa delle sedi periferiche del Sismi in Italia. Le due cartine coincidono perfettamente”. In seguito, Fulci consegna al capo della polizia e al comandante generale dell’Arma dei carabinieri un elenco di sedici nomi che ritiene coinvolti nelle operazioni della Falange armata. Quindici erano membri della Settima divisione del Sismi, quella a cui faceva capo la pianificazione Stay Behind-Gladio.
I quindici apparterrebbero al nucleo Ossi (Operatori Speciali Servizio Italiano), “personale specificatamente addestrato per svolgere, in territorio ostile e in qualsiasi ambiente, attività di carattere tecnico e operativo connesse con la condotta della guerra non ortodossa”. Una struttura, dichiara Fulci, “molto esperta nel fare guerriglia urbana, piazzare polveri, fare attentati”. Nei due anni in cui è alla guida del Cesis, Fulci scopre anche un’altro scandalo che terremota i poteri segreti italiani: quello dei fondi neri del Sisde, oltre 60 miliardi di lire del servizio di cui si erano impossessati alcuni funzionari di vertice.
In questo clima di tensione e di vuoto di potere, con i partiti della Prima Repubblica che implodono dopo le inchieste di Mani pulite, di certo c’è solo che Ciampi denuncia apertamente – dopo la notte del black-out a palazzo Chigi – “aria di golpe”. Nell’ottobre seguente, ricorda Piero Grasso, “il ministro della Difesa del governo Ciampi, Fabio Fabbri, va in Sardegna a chiudere le attività d’addestramento di Gladio nella base di Capo Marrargiu. E licenza 300 agenti del Sismi che tornano ai loro corpi d’appartenenza”.
Gli ultimi fuochi si accendono all’inizio del 1994. Il 27 gennaio l’autobomba piazzata da Cosa nostra fuori dall’Olimpico a Roma, che aveva per obiettivo i carabinieri in servizio allo stadio, non esplode per il malfunzionamento del telecomando. Pochi giorni prima, il 18 gennaio, in un agguato in Calabria sono uccisi due carabinieri, Antonino Fava e Vincenzo Garofalo. Il 24 gennaio viene sventato un attentato contro il sostituto procuratore di Trapani Luca Pistorelli, applicato all’antimafia di Palermo, che sta indagando su Gladio e massoneria.
Poi la Falange armata si farà viva, un’ultima volta, nel febbraio 2014: con una lettera mandata a Totò Riina allora rinchiuso nel carcere di Opera in cui si legge: “Chiudi quella maledetta bocca. Ricorda che i tuoi familiari sono liberi”. I boss mafiosi sono stati chiusi in cella. Gli strateghi della tensione del biennio 92-93 in cui nasce la cosiddetta Seconda Repubblica restano senza volto.