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Storia segreta di Raul Gardini / IL PODCAST

Storia segreta di Raul Gardini / IL PODCAST

Il colpo di pistola partì la mattina del 23 luglio 1993.

Milano, palazzo Belgioioso, ore 8.45. Il proiettile calibro 7.65 della sua Walther Ppk pone fine alla vita, e alla leggenda, di Raul Gardini. “Il Contadino”, “il Corsaro”, l’uomo di successo il cui volto era stato sulle copertine dei grandi settimanali italiani e internazionali.

Il suo portavoce, Stefano Roberti, commenta a caldo: «Era l’unica via d’uscita, non poteva fare altrimenti, visto il suo modo di pensare. Me l’aspettavo al 99 per cento».

Raul nasce a Ravenna, in Romagna, nel giugno di 60 anni prima. Suo padre è un ricco imprenditore agricolo e per questo gli resta addosso il nomignolo di “Contadino”. Si mette in tasca un diploma di perito agrario e va a lavorare nell’azienda del più fortunato dei romagnoli di successo, Serafino Ferruzzi, che nella sua vita aveva creato un impero alimentare e finanziario, un grande gruppo privato italiano, secondo solo alla Fiat degli Agnelli. Nel 1957, Raul sposa Idina Ferruzzi, la figlia di Serafino. E quando Serafino, nel 1979, muore in un incidente aereo, è Raul a ereditare l’impero.

Raul “il Condottiero” ne espande i confini, in Italia e all’estero. Compra, acquisisce, scala. Diventa il padrone dello zucchero comprando la Eridania, il più grande produttore italiano, e la francese Béghin Say. Si espande in America nel mercato dell’amido e della soia. Poi scala la Montedison, la più importante azienda petrolchimica privata italiana.

Cambia la musica: tanto il vecchio Serafino era riservato, silenzioso, quasi invisibile, tanto al giovane Raul piace invece stare sotto i riflettori della stampa e della tv. Per le sue avventure industriali e finanziarie, ma anche per le imprese sportive. Appassionato di vela fin da ragazzino, Raul si fa costruire barche innovative e velocissime, prima la Orca 43, poi il Moro di Venezia, con le quali partecipa a regate internazionali e le vince. Il Moro di Venezia trionfa nella Louis Vuitton Cup. Nel 1992 è la prima imbarcazione di un Paese non anglofono che, in 141 anni di storia della Coppa America, partecipa alla sfida con l’ambizione di vincerla. A San Diego, in California, viene però sconfitto da America, la barca di Bill Koch.

Non fu l’unica sconfitta. Raul Gardini subisce pesanti perdite nella gestione del gruppo Ferruzzi. E viene battuto anche nella sua ultima impresa finanziaria: Enimont.

Enimont è la grande scommessa di Raul: unire tutta l’industria chimica italiana in un grande gruppo capace di competere sul mercato internazionale. Nasce dalla fusione delle attività chimiche di Montedison, del gruppo Ferruzzi, con le attività chimiche di Eni, la compagnia petrolifera pubblica di Stato. Il nuovo gruppo è controllato al 40 per cento dalla Montedison (cioè Gardini) e al 40 per cento da Eni, mentre il restante 20 è nelle mani del mercato azionario. Ma i partiti della Prima Repubblica – che dalle imprese pubbliche e private succhiavano tangenti, nomine e potere – non vogliono perdere il controllo del nuovo colosso. Gardini aveva avuto dai partiti la promessa che gli avrebbero concesso sgravi fiscali in cambio del conferimento a Enimont delle attività chimiche di Montedison. La promessa non viene mantenuta. In risposta, Gardini tenta di scalare Enimont mettendo in minoranza Eni. Proclama: «La chimica sono io».

Lo fermano. Nasce un contenzioso giudiziario con Eni. Un giudice che poi si scoprirà essere corrotto, Diego Curtò, decide il blocco delle azioni Enimont. Raul ne esce con il “patto del cow-boy”, o clausola “della roulette russa”: può o comprare tutto o vendere la sua parte. Decide di vendere. Ma una grossa fetta dei soldi che incassa deve versarli ai partiti: è la madre di tutte le tangenti, più di 150 miliardi di lire, che per i due terzi passano attraverso i conti dello Ior, l’Istituto vaticano per le opere di religione.

Intanto però nel febbraio 1992 era successo un fatto imprevisto: Antonio Di Pietro e gli altri magistrati del pool anticorruzione di Milano cominciano l’inchiesta Mani pulite, che scopre centinaia di tangenti e rivela il sistema di corruzione messo a punto dai partiti della Prima Repubblica. Scoprono anche la «madre di tutte le tangenti», la maxi-mazzetta Enimont che Gardini aveva dovuto versare per poter sciogliere la joint-venture tra Montedison ed Eni.

Di Pietro interroga Giuseppe Garofano, detto “il Cardinale”, ex presidente di Montedison, che torna in Italia dopo una lunga latitanza. Un ritorno che per Raul Gardini suona come una campana a morto.

Quella tragica mattina del 23 luglio 1993, Gardini aveva un appuntamento alla Procura di Milano. Doveva essere interrogato da Antonio Di Pietro proprio sulla maxitangente Enimont. Appena sveglio, legge sui giornali che Garofano ha parlato e lo ha coinvolto nella vicenda. Teme di poter essere arrestato. Insopportabile, per “il Corsaro”, il più brillante dei manager italiani. Estrae da un cassetto la sua Walther Ppk 7.65 e si spara. «Era l’unica via d’uscita» – ricordate le parole del suo portavoce? – «non poteva fare altrimenti visto il suo modo di pensare».

Dopo la sua morte, molti si convincono che non si tratti di suicidio, ma che possa essere stato ucciso. Antonio Di Pietro, che è corso subito in piazza Belgioioso, si convince che Raul Gardini si sia volontariamente tolto la vita. E così stabilirà l’inchiesta. Sono giorni neri. Nel giro di pochi giorni, si tolgono la vita i due massimi responsabili di Enimont e della maxi-tangente: il 23 luglio Gardini, tre giorni prima, il 20 luglio, si era ucciso in carcere, soffocandosi con un sacchetto di plastica, anche il suo grande avversario, il presidente dell’Eni Gabriele Cagliari.

Che cosa avrà pensato Raul Gardini, quella terribile mattina del 23 luglio?

Nei minuti prima di impugnare la sua Walther Ppk 7.65, Raul aveva davanti a sé non uno, ma tre grossi problemi, pronti a esplodere come una bomba a orologeria.

Il primo lo rilevarono subito tutti: Gardini sarebbe stato interrogato, e probabilmente arrestato, poche ore dopo, per la madre di tutte le tangenti.

Il secondo si mostrò solo qualche tempo dopo: i conti della Ferruzzi erano disastrosi, Gardini aveva portato al crac il grande gruppo affidatogli dal vecchio Serafino Ferruzzi. Era già stato cacciato per questo dalla famiglia Ferruzzi e la guida del gruppo era stata assunta da Carlo Sama. Gardini, a partire dal 1989, aveva fatto operazioni speculative sulla soia alla Borsa di Chicago, ma aveva perso: circa 400 milioni di dollari, perdite che aveva poi nascosto nei bilanci delle società del gruppo. Ma sapeva che prima o poi i nodi sarebbero arrivati al pettine. E Raul, quella mattina livida, aveva capito che il momento stava arrivando.

C’è anche un terzo problema, affiorato solo molti anni dopo e ancora oggi non troppo considerato. Eppure era un problema pesantissimo: Gardini aveva consegnato alcune società del suo gruppo nelle mani della mafia. Era diventato, di fatto, socio di Cosa nostra.

Così il colpo di Walther Ppk 7.65, quella mattina, ebbe un effetto immediato. Regolò in una frazione di secondo tre questioni per capire le quali noi abbiamo avuto bisogno di molti anni. Più svelto a capire fu Nino Buscemi, imprenditore siciliano per conto di Cosa nostra. Parlando di Lorenzo Panzavolta, l’uomo di Gardini per il settore appalti, Buscemi un giorno esclamò: «Quello è un duro, meglio di un vero uomo d’onore».

Nella sua bella casa milanese di piazza Belgioioso, Gardini morì.

Gardini il vincente, l’uomo non abituato a perdere, nell’estate 1993 sapeva di essere uno sconfitto. Prima aveva visto naufragare l’appena celebrato matrimonio Enimont. Poi aveva fallito il tentativo di impadronirsi della chimica italiana. Infine la famiglia Ferruzzi lo aveva estromesso dal gruppo. E anche il Moro di Venezia aveva perso la sua sfida alla Coppa America. Ma chi avrebbe mai pensato che Gardini – l’uomo che aveva avuto le copertine dei grandi giornali d’Italia e del mondo – potesse essere un socio di Cosa Nostra? Indicibile, impensabile.

A Palermo era nato il sistema del “Tavulinu”, il “tavolo a tre gambe” attorno a cui si siedono gli imprenditori, i politici, e Cosa nostra. Per tutti gli appalti in Sicilia, ci si spartisce la torta. L’imprenditore che vince l’appalto paga la tangente ai politici, ma una parte va agli uomini di Cosa nostra: Antonino Buscemi e Giovanni Bini, che fanno riferimento a Totò Riina, su ogni lavoro impongono una percentuale dello 0,8 per cento. È la “tassa Riina”.

Alla festa siciliana dei lavori pubblici, insieme a politici e mafiosi, partecipano senza batter ciglio anche le grandi imprese del Nord: la Fiatimpresit del gruppo Agnelli, la Lodigiani di Milano, la Rizzani De Eccher di Udine, la Tor Di Valle e la Federici di Roma, le cooperative rosse emiliano-romagnole. Così fan tutti. E così ha fatto anche il gruppo Ferruzzi. Per una quindicina di anni, dicono le indagini. È la famiglia Buscemi, mandamento di Boccadifalco, a stringere concretamente l’accordo. In forza di questo, il gruppo di Gardini si garantisce l’incontrastato sfruttamento delle cave in Sicilia, diventa il fornitore monopolistico di cemento nell’isola, conquista una fetta degli appalti pubblici. Le società operative che scendono in campo sono soprattutto la Calcestruzzi spa, la Cisa, la Gambogi.

Già nell’ottobre 1984 Buscemi e i suoi amici, appena ricevono un mandato di cattura e sentono odore di sequestro dei beni (per mafia, in forza della legge Rognoni-La Torre), chiedono aiuto a Ravenna e Ravenna prontamente interviene: la Calcestruzzi Palermo Spa (di Buscemi e Bini) viene acquistata dalla Calcestruzzi Spa (di Gardini), ma a comandare restano i boss. Il gruppo Ferruzzi diventa tecnicamente socio e prestanome di Cosa nostra. La Calcestruzzi non è un’azienda qualunque, è la prima produttrice di calcestruzzo in Italia, che è il paese che consuma più calcestruzzo in Europa.

Scrivono i magistrati palermitani: «Gardini e Panzavolta ben sapevano di legare le loro sorti a quelle di soggetti di cui conoscevano l’influenza e il carisma nel contesto mafioso palermitano e anzi ritenendo proprio per questo di potere più facilmente introdursi nel difficile mercato siciliano».

Racconta il boss Giovanni Brusca: «La quota dei grandi appalti spettante a Cosa nostra ci venne attribuita per il tramite delle società facenti parte del gruppo Ferruzzi».

Ecco, dunque, quei momenti terribili in cui Raul Gardini, la mattina del 23 luglio 1993, compie la sua scelta più difficile, dura, definitiva. Si vede in una cella di San Vittore, accusato delle tangenti Enimont che lo avevano costretto a pagare. Si vede indagato per il crac Ferruzzi. E teme che possa emergere anche il più nero dei suoi segreti, il patto con Cosa nostra. In pochi secondi, il proiettile calibro 7.65 della sua Walther Ppk scioglie ogni nodo. Per sempre.

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Gianni Barbacetto, Il Fatto quotidiano, Fq Extra, 13 marzo 2023
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