di Paolo Tex Tessarin / da FataMorganaWeb.it
«Dall’Expo in poi i milanesi vengono trattati alla stregua di turisti della propria città. Una città che devono a tutti i costi scoprire, visitare in ogni angolo segreto, e di cui è imperativo essere orgogliosi e soddisfatti. Perché la prima regola per vendere una città sul mercato globale è restituire un’immagine di entusiasmo compatta, collettiva, in cui ogni individuo rappresenta un atomo di energia vibrante. Il buon umore dei cittadini è diventato un elemento».
Lucia Tozzi mette le cose in chiaro fin dalle prime pagine dell’introduzione della sua ultima fatica L’invenzione di Milano e non poteva essere altrimenti dato lo spirito critico e spietatamente ironico della nostra “comunista napoletana” (due tratti che le vengono, neanche troppo surrettiziamente, rinfacciati nelle prime altrettanto spietate recensioni fatte dagli strenui difensori del Modello Milano a là Il Foglio).
Per noi torinesi è facile rivedere nel modello meneghino una riproposizione in grande, più glamour e meno provinciale, del Sistema Torino, che infatti l’autrice cita nel primo capitolo del libro attraverso l’omonimo fortunato saggio di Maurizio Pagliassotti. Le Olimpiadi del 2006 resero i torinesi più simpatici (Evelina Christillin), Expo 2015 ha reso i milanesi più internazionali, smart & positive thinker. L’operazione di maquillage è riuscita decisamente meglio a loro, e a riprova della schiacciante vittoria del Sindaco Sala abbiamo un semplice dato a dimostrarcelo: le Olimpiadi 2026 che Milano (e Cortina) si sono aggiudicate proprio in competizione con il capoluogo sabaudo.
E come poteva essere altrimenti? Il capoluogo meneghino è diventato «il paradiso fiscale» del Real Estate (Barbacetto 2023), una manna dal cielo per il modello neo-liberale: la città grigia e produttiva degli anni ’80 si è trasformata nella terra delle grandi opportunità, la Babele degli investimenti internazionali, il micro-cosmo all’interno del quale tutti possono trovare il proprio spazio di successo ma, certo, solo se disponibile a remare verso la stessa direzione. A confronto della Milano di oggi, quella da bere di Craxi era una festa paesana.
La direzione è quella della smart city, della competizione tra città globali da vincere a ogni costo: nel saggio, l’autrice dimostra la sua ampia e minuziosa conoscenza urbanistica e architetturale citando numerosi spazi e quartieri fatti risorgere grazie a improbabili week del design, della moda, e di tutto ciò che luccica. Nessuno sembra sottrarsi a questa magia: centri sociali che si trasformano in spazi di rigenerazione, fondazioni culturali che trasformano il quartiere rendendolo più attraente, con la ciliegina sulla torta del mondo del Terzo Settore che cambia completamente natura perché costretto a competere sul mercato delle risorse private.
A quel punto diventa inevitabile anche per loro remare nella stessa direzione dell’onda, e l’esempio dell’associazionismo sociale è paradigmatico: le risorse pubbliche ormai scarseggiano dallo scorso secolo, il Welfare State è un modello troppo parassitario per esser anche solo nominato in questo contesto. La critica si fa edulcorata, l’assistenza ai bisognosi si assottiglia perché la maggior parte del tempo degli operatori viene impiegato in pianificazione progettuale e nella rincorsa dei finanziamenti, perlopiù nazionali ed europei.
L’autrice in certi tratti è spietata (ma ci piace proprio per questo, e forse sta proprio qui l’effetto dirompente che sta avendo il suo pamphlet sul dibattito pubblico anche mainstream), specialmente quando mette a nudo la discrasia tra la Milano che si proclama Capitale del Progressismo, partecipato e inclusivo (non solo l’attuale Sindaco Sala e il suo Assessore Maran, ma pensiamo allo stesso Pisapia che dà il via a Expo 2015) e la Milano “Growth Machine”, ovvero quei «meccanismi di produzione del consenso politico ed economico che fanno incamerare, a chi ne fa parte, i benefici della trasformazione urbana, trasferendone i costi sugli attori che non fanno parte della coalizione vincente e sulle aree che non sono interessate alla trasformazione», secondo la sapiente sintesi dell’esimio prof. Semi (2015).
Eh sì, perché nonostante la più grande operazione di marketing della storia cerchi di tenerlo nascosto, anche qui vi sono gli sconfitti e gli esclusi. E in questo modello, che fine fanno i bisognosi? Coloro che non ce l’hanno fatta, che “sono stati stirati dalla vita” per citare un reel virale di questo periodo? Beh, neanche loro si sottraggono al bivio che L’invenzione di Milano descrive in maniera esemplare: non c’è più spazio per la lotta, non c’è cassa di risonanza per la rivendicazione dei diritti economici e sociali di chi vuole opporsi allo status quo.
Anche i poveri (esistono anche a Milano? Davvero?) hanno un ruolo da giocare sul palcoscenico milanese, ed è molto semplice: sottoporsi ai balocchi che i rigeneratori, ovviamente di sinistra, progressisti e favorevoli all’integrazione di tutt*, hanno pensato per loro. Feste di quartiere con panificazione naturale in piazza, corsi di poesia per gli adolescenti in difficoltà (la bellezza salverà il mondo!), partecipazione a progetti di bandi europei utili per annacquare le differenze e il conflitto di classe: tutto è utile per rendere l’immagine di una città omogenea, composta da communities e location felici.
In fin dei conti «Milano è il vero simbolo dell’amore, di tutto ciò che cambia, Milano è l’ultimo spettacolo, la vita che va» come cantano i Baustelle: non c’è spazio per l’esitazione, per la riflessione critica, per il dubbio. L’amore meneghino è, ça va sans dire, quello Lgbtqi+ che sventola con la bandiera arcobaleno dal Municipio, perché ogni washing è benvenuto; inutile aggiungere, a proposito di princìpi di sinistra trasformati in hashtag, che nessuno può batterli in termini di greenwashing: la città del cemento diventa ambientalista quando gli eventi internazionali a difesa del Pianeta lo richiedono, fino al parossismo di costruire parchi (che in realtà sono parchetti, vedi il glorificato Citylife) perché il verde aumenta il valore immobiliare dei grattacieli appena sorti lì di fianco.
Manca ancora l’ultimo tassello, la parola-chiave presente in ogni modello neo-liberale che si oppone alla rozzezza delle destre contemporanee (e che poche città globali hanno forse conosciuto meglio della Milano della Lega Nord dei primordi): la cultura! E anche qui l’autrice non ha paura a uscire dal seminato e affermare senza problemi che la Giunta Moratti non fu Lucifero su questo tema, e anzi contribuì all’unica opera d’arte pubblica del nuovo Millennio, ovvero il Dito Medio di Cattelan, perfetta simbiosi di arte, mercato e marketing, e quindi perfetto simbolo della città a venire.
Con il Sindaco Sala invece, esplosero gli spazi profit e non profit sull’onda dell’entrata a regime del lavoro di HangarBicocca e Fondazione Prada: è l’apoteosi della partnership pubblico-privato. Tutto si mischia, anzi si ibrida: innovazione e cultura, social e pubblicità, eventi e comunicazione, in un sottobosco dove il marketing management prevale sulle competenze storico artistiche. Anche qui, se permettete, la primazia nell’utilizzo della chiave culturale come maschera delle trasformazioni reali spetta alla capitale sabauda, quando il già citato Sistema Torino ci propose come “capitale della cultura” mentre nell’ombra la Fiat stava abbandonando la città lasciandola ai bordi del baratro.
Tornando ai “poli creativi”, non potevamo esimerci dal parlare di cibo: non esiste oggi al mondo un luogo della cultura dove non vi sia da mangiare, ovviamente declinato secondo i gusti della bourgeois bohemian. Interessante, sempre da torinese e da co-autore del citato libro Foodification, come il cibo si è mangiato le città, come Tozzi declini il concetto in salsa meneghina: se comune a tutte le città è l’assioma che «durante la cultura si mangia», preferibilmente in food hub e bistrot, colpisce l’affermazione che «bar e ristoranti sono una delle pochissime tipologie di piccole attività a creare profitto» dato che invece a Torino il tasso di turnover di ristoranti chiusi per fallimento è altissimo.
Aldilà di queste specificità, anche il cibo, anzi il food diventa un marker di gentrification: l’ibridazione con la cultura lo trasforma in prodotto automaticamente inaccessibile alle fasce più basse della popolazione, rendendo allo stesso tempo la cultura in qualche modo “accessibile a tutti”, e quindi accettabile agli occhi dei filantropici policy maker, in una finzione interclassista che si perpetua all’infinito.
Non fatevi però prendere dallo scoramento: Lucia Tozzi, nel finale ma non solo del libro, squarcia il velo di Maya e ci dimostra che “There is an alternative”! È possibile andare oltre la città della rendita, del lusso e del divertimento a ogni costo: basta avere reale volontà politica di applicare soluzioni che soddisfino le esigenze e i bisogni degli abitanti (e non dei city user) di Milano. Perché citando l’autrice stessa, «opporsi alla religione del metro quadro si può». Anzi, si deve.
Riferimenti bibliografici
– Lucia Tozzi, L’invenzione di Milano. Culto della comunicazione e politiche urbane, Cronopio, Napoli 2023.
– Gianni Barbacetto, Oneri d’urbanizzazione: Milano resta il paradiso fiscale dell’immobiliare (https://www.giannibarbacetto.it/2023/03/20/oneri-durbanizzazione-milano-resta-il-paradiso-fiscale-dellimmobiliare/).
– Giovanni Semi, Gentrification. Tutte le città come Disneyland?, Il Mulino, Bologna 2015.