Case popolari? Nel “Modello Milano” non ci sono più
Oggi, 11 maggio, il sindaco Giuseppe Sala ha convocato il “tavolo” per discutere il caro affitti studentesco a Milano, dopo la protesta iniziata con la tenda di Ilaria Lamera piantata davanti al Politecnico. Il tema degli affitti finora era da passare sotto silenzio, tanto che il “tavolo” era già stato avviato mesi fa, ma nessuno se l’era filato. Ora è diventato glam, le tv e i giornali corrono a fare servizi ed ecco che arrivano gli squilli di tromba e perfino i rettori delle università milanesi, che finora erano stati zitti.
A pagina 7 del Fatto quotidiano, Lucia Tozzi oggi spiega l’inganno che tenta di disinnescare la forza della protesta iniziata da Ilaria (l’articolo è qui sotto). Il problema dell’abitare a Milano è uno solo per tutti quelli che ci vogliono vivere, studenti e non studenti, e i prezzi impazziti sono causati non dal destino, ma dalle scelte delle amministrazioni (di centrodestra e poi di centrosinistra senza soluzione di continuità) che hanno fatto dell’“attrattività” il perno del “Modello Milano”: attirare capitali per operazioni immobiliari facili e senza troppe regole e con gli oneri d’urbanizzazione più bassi d’Europa; così i prezzi crescono e chi non riesce a stare al passo con gli aumenti al metro quadro delle vendite e degli affitti è impoverito o espulso. È un fenomeno che riguarda migliaia di persone e famiglie del ceto medio, impiegati, professionisti, insegnanti, giovani.
L’altro elemento che ha fatto saltare l’equilibrio urbano è il grande, imperdonabile scandalo delle case popolari, che l’amministrazione regionale e quella comunale non hanno saputo gestire: ci sono tanti inquilini senza case e tante case senza inquilini. A Milano ci sono 36mila appartamenti Aler (regionali) e 28mila Mm (comunali). Vi abitano almeno 150mila persone, il 10 per cento dei cittadini milanesi. Ma 13mila alloggi popolari sono sfitti, uno su cinque. Perché inagibili, o in ristrutturazione, o da ristrutturare, o occupati abusivamente, o in attesa di assegnazione o di vendita.
“Non ci sono i soldi”, dice Sala a Ilaria. Per questo, da anni, il patrimonio di case popolari, invece di essere ristrutturato e implementato con nuove costruzioni, viene impoverito e svenduto, per fare cassa. “Non ci sono soldi”: potrebbero essere attinti almeno in parte dagli oneri d’urbanizzazione, che invece sono mantenuti bassi per “attrarre” capitali e fondi d’investimento nazionali e internazionali. Gli accordi con i costruttori prevedono quote bassissime di edilizia sociale, poi messe sul mercato spesso a prezzi di mercato.
Neanche l’occasione del Pnrr è stata colta per avviare un grande programma di case popolari. C’è stato in questi anni uno slittamento lessicale: il termine novecentesco “case popolari” è quasi sparito, coperto dallo scintillio del più cool “social housing”. Ma a ben guardare, il cambiamento non è soltanto terminologico: è di paradigma sociale ed economico. Le case popolari sono un investimento di welfare che va a beneficio di chi una casa non se la può comprare e non può neppure pagare un affitto a prezzi di mercato, tanto più in una città cara come Milano.
Il “social housing” offre invece case (poche) a prezzi calmierati (poco, e comunque sempre troppo alti per la fascia povera della popolazione). Ed è una parte del meccanismo finanziario con cui le città, Milano innanzitutto, stanno crescendo. Le banche e gli “sviluppatori” immobiliari mettono in conto che una parte delle loro realizzazioni saranno a rendimento più basso, ma ottimamente compensato dal resto delle loro operazioni.
Ora c’è il “tavolo” a cui si siederà, con i rettori, anche Ilaria. Vedremo presto di che materia è fatto: quanta realtà e quante chiacchiere.
Dalla tenda alla città
di Lucia Tozzi
Benedetti gli studenti che protestano per l’insostenibilità dei prezzi delle case, delle stanze, dei posti letto e degli studentati, a Milano come altrove. Ma poche cose sono più tristi della canea mediatico-politica scatenata dalle tende di fronte al Politecnico: una processione di servizi mediocri e di facce di bronzo che in tutti questi anni non hanno fatto alto che alimentare il Modello Milano e la sua narrazione trionfalistica, e che non vedono l’ora di ridurre il dramma della disuguaglianza abitativa alla più circoscritta questione dell’accoglienza degli studenti fuorisede.
La stessa Ilaria Lamera, la studentessa che ha dato avvio alla protesta, se ne rende conto: “Le parole sono belle, ma servono i risultati. Ho fatto tutto questo per trovare una soluzione concreta”. Il problema è quali soluzioni concrete e a quali problemi.
Il sindaco Sala si è precipitato come tutti gli altri sull’iconica e mediatica tenda, e pur premettendo che la città “non ha i soldi” ha subito attivato tavoli di discussione con i rettori delle università milanesi, gli assessori comunale e regionale alla casa e le società immobiliari. Vale a dire, con chi ha consapevolmente contribuito a costruire e alimentare il mito della Milano attrattiva e della valorizzazione infinita di ogni suo metro quadrato dal centro alla più estrema periferia, e che hanno individuato nel business degli studentati la nuova gallina dalle uova d’oro.
Coima, Redo, Hines, le cooperative, le università ne hanno messi in cantiere decine, dagli Scali all’ex Macello (ora Aria), dalla Bovisa a Corvetto, e naturalmente le grandi società specializzate come Camplus o Campus X fanno a gara per aggiudicarsi i finanziamenti del PNRR dedicati agli studentati (più di 37 milioni per 1075 nuovi posti letto a Milano, scrive Laura Carrer su Milanotoday).
Spacciati per una forma di Housing sociale ma più spesso simili a hotel che a servizi accessibili, gli studentati permettono di estrarre ricchezza contemporaneamente dai contributi pubblici al progetto, dalle famiglie dei fuorisede che pagano le rette esose e dalla gentrificazione del tessuto urbano su cui atterrano: sono il migliore cavallo di Troia per la trasformazione di negozi e servizi in bar e ristoranti e la sostituzione di vecchi contratti a lungo termine con affitti brevi.
È fondamentale, quindi, che la protesta non si trasformi in un diversivo: al centro della questione abitativa a Milano non ci sono solo gli studenti, e anzi è bene tenere a mente che anche prima degli studentati gli studenti sono sempre stati una parte del problema. Proprio perché rappresentano un genere di abitanti più flessibile, più disposto al consumo e alla vita notturna e potenzialmente agiato, gli studenti sono considerati come una delle forme più pregiate di “capitale umano” e posti apertamente in competizione con gli strati meno abbienti della popolazione.
Gli atenei ingaggiano inutili battaglie di posizione per accaparrarsene il maggior numero possibile, strappandoli ad altre città, per disporre di un potere di natura prettamente immobiliare: ormai rettori e direttori di scuole trattano con i poteri forti della città in base al capitale umano che sono in grado di spostare sulle aree da “rigenerare”, come negli accordi per la Statale a Rho, per l’Accademia di Belle Arti a Scalo Farini o delle Scuole Civiche in Bovisa.
Partendo da questa consapevolezza la protesta degli studenti può diventare, unita a quella degli abitanti delle case popolari, dei senza tetto, delle occupazioni, dei cittadini della fascia “grigia” che non riescono ad accedere a un mercato della casa profondamente drogato dalle politiche locali e nazionali, un grande movimento di giustizia sociale. A patto di identificare molto bene gli amici e i nemici comuni e rifiutare le false soluzioni: non ci si può accontentare di inutili appelli a finanziamenti e leggi nazionali e di qualche studentato più o meno di lusso, ma pretendere una forte e repentina inversione delle politiche che hanno prodotto l’attuale situazione e l’allontanamento di chi le ha create e sostenute.
Per calmierare il mercato è necessario implementare la dotazione, la manutenzione e l’assegnazione di alloggi pubblici (non pubblico-privati), imporre un tetto agli affitti privati, tassare gli immobili vuoti per favorire la loro reimmissione sul mercato e limitare con ogni mezzo gli affitti brevi. Bisogna colpire la rendita aumentando radicalmente gli oneri di urbanizzazione e reintroducendo strumenti urbanistici chiari e in grado di governare le trasformazioni in nome dell’interesse pubblico. Il resto è bassa comunicazione.
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