Brescia. La testimone: “Promisi al capitano Mario Mori il silenzio sulla strage”
1. L’ultima indagine sull’anno nero
della strategia della tensione
Il momento più nero della strategia della tensione: il 1974 è l’anno delle quattro stragi (due realizzate, Brescia e Italicus, due tentate, a Vaiano e a Silvi Marina); ed è l’anno dei tentati golpe, in cui i neofascisti sono pronti a intervenire in armi per l’“ora x”. Racconta agli investigatori il nero Umberto Zamboni: “Una volta sciolto Ordine nuovo, si presentò la necessità di scegliere una risposta da dare allo Stato. Questa risposta, necessariamente, prevedeva solo due tipi diversi di approccio. Uno violento e uno politico”. Continua Zamboni: “Avvennero delle riunioni in cui si parlò di creare una struttura paramilitare che avrebbe dovuto realizzare attentati con vittime, cioè stragi indiscriminate per indurre un desiderio di sicurezza, la gente doveva non poterne più per chiedere un governo forte”.
Ordine nuovo viene sciolta per decreto governativo il 23 novembre 1973. Il 28 febbraio 1974, i suoi militanti si riuniscono in segreto all’Hotel Giada di Cattolica, per riorganizzare l’attività eversiva sotto una nuova sigla: Ordine nero. Sono presenti anche uomini del Sid, il servizio segreto militare. Ci vuole una nuova strage, dopo quella di piazza Fontana (1969) e della Questura di Milano (1973). A Cattolica, il capo di Ordine nuovo veneto, Carlo Maria Maggi, si assume l’impegno di realizzare l’attentato. Ai primi di maggio, in un nuovo incontro sul Garda, tra Desenzano e Bardolino, si decide che l’azione dovrà essere a Milano, ai danni della Maggioranza silenziosa, così da essere addebitato alla sinistra per far scattare nel Paese la richiesta d’ordine: “Vogliamo i colonnelli”.
Ma poi il radar dell’eversione si sposta su Brescia. Per sabato 18 maggio è pianificato un attentato in un locale notturno bresciano frequentato da travestiti e magnaccia, il Blue Note. Ha già pronta la bomba Silvio Ferrari, un neofascista di 20 anni. Ma all’ultimo momento l’azione salta: perché Silvio si tira indietro, o forse perché il neofascista Ermanno Buzzi, frequentatore del locale, fa due telefonate anonime alla Polstrada e alla Guardia di finanza, provocando un vistoso controllo di polizia che blocca l’operazione.
Silvio Ferrari
La stessa notte, alle 3, accade l’imprevisto: Silvio Ferrari salta in aria, dilaniato dall’esplosivo (quello destinato al Blue Note?) che aveva tra le gambe, deposto sul pianale della sua Vespa. Un errore, un “incidente sul lavoro”: questa la spiegazione che fu data. Ma ce n’è un’altra: forse Silvio è stato punito dai suoi stessi camerati, che sapevano dei suoi rapporti con i carabinieri e la polizia. Comunque i funerali di Silvio Ferrari diventano il collante per tenere uniti i neri e motivarli per le prossime azioni: slogan, inni fascisti, saluti romani, l’ascia bipenne simbolo di Ordine nuovo riprodotta con i fiori bianchi e rossi sulla bara.
La Vespa di Silvio Ferrari dopo l’esplosione e i fiori sulla sua bara
È proprio quel giorno, in quel clima, che matura la decisione dei sindacati e del comitato unitario antifascista di organizzare una grande manifestazione contro la violenza nera. L’appuntamento è fissato per martedì 28 maggio, in piazza della Loggia: anche per rispondere allo sciame di attentati fascisti che avevano colpito Brescia e provincia. Il 25 maggio, in una riunione ad Abano Terme, Carlo Maria Maggi dà il via all’operazione: sarà in piazza della Loggia la strage ipotizzata fin dalle riunioni di Cattolica.
La bomba è posta in un angolo della piazza dove di norma stazionano poliziotti e carabinieri: sono le vittime designate, per poter addebitare ai “rossi” la carneficina. Ma quel 28 maggio piove, le forze dell’ordine si spostano per lasciare che i manifestanti si proteggano sotto il porticato. Alle 10.12 lo scoppio. Otto morti, 102 feriti.
Ora l’ultima inchiesta dei magistrati di Brescia ha due nuovi indagati, Marco Toffaloni e Roberto Zorzi, militanti neonazisti di Ordine nuovo di Verona, accusati di aver portato in piazza l’ordigno della strage. Saranno loro i protagonisti delle udienze preliminari che inizieranno a Brescia il prossimo 23 marzo per Zorzi, che allora aveva 20 anni, e ad aprile per Toffaloni, che ne aveva 17 e sarà processato dal Tribunale dei minori. Se saranno rinviati a giudizio, due dibattimenti paralleli dovranno ricostruire la storia nera di quei due ragazzini, ma anche dei loro rapporti con gli adulti che indossavano le divise degli apparati dello Stato.
Piazza della Loggia dopo lo scoppio della bomba. Cerchiato, quello che potrebbe essere Marco Toffaloni
2. La testimone racconta: carabinieri,
servizi segreti, la sede Nato
La nuova testimone che ha accettato di raccontare quello che ha visto sulla strage di Brescia aveva allora 19 anni ed era la fidanzata di Silvio Ferrari. Quasi 50 anni dopo, ancora terrorizzata per ciò che potrebbe succederle, mette a verbale: “Debbo rivelare di avere fatto alcuni viaggi a Verona con Silvio. (…) Lui parlava di un ‘gruppo’ di Verona, a Verona c’erano le persone importanti, a Brescia quelle normali. Silvio mi diceva che a Verona si incontrava con i Carabinieri”. Nei viaggi in auto, “io ero seduta sui sedili posteriori e il Silvio era a fianco del conducente”.
Il luogo degli incontri è la stazione dei carabinieri di Verona-Parona-Valpolicella. “Ho partecipato a due riunioni presso quella caserma, portatavi da Silvio Ferrari”. È ancora terrorizzata a parlarne. Ha paura di morire, com’è morto Silvio, saltato in aria il 19 maggio 1974 sulla bomba che stava trasportando sulla sua Vespa. Dopo molti tentennamenti, la donna fa il nome dell’autista che li portava agli incontri: è l’appuntato dei carabinieri Vittore Sandrini, fedelissimo dell’allora capitano Francesco Delfino. “Poi quando io vedo Sandrini nell’incontro importante… egli fu molto chiaro, io ero viva per un pelo e se non avessi dimenticato tutto, ma proprio tutto, se io avessi fatto anche un minimo errore, sarei morta. Ma non perché mi avrebbe ucciso lui, perché io sono convinta che lui tra gli uomini di Delfino era tra i più buoni, ma perché altri mi avrebbero eliminato”.
Alla fine, la ragazza si fa coraggio e rivela al colonnello Massimo Giraudo del Ros carabinieri i nomi di chi era presente alle riunioni nella caserma di Parona: il capitano Delfino, l’appuntato Sandrini, alcuni giovani neofascisti (Silvio Ferrari, Nando Ferrari, Marco Toffaloni). “C’erano poi altre due persone, di età, una delle quali era da Silvio chiamata Angelo”. “Io sapevo che l’Angelo era uno importante dell’Arma”. Da una foto, la ragazza lo riconosce: è il tenente colonnello Angelo Pignatelli, che nel 1974 è capocentro di Verona del Sid, il servizio segreto militare. Concludono gli investigatori guidati da Giraudo: “Presso la Stazione carabinieri di Verona-Parona erano avvenute riunioni clandestine tra elementi dell’Arma, estremisti di destra e, verosimilmente, elementi del Sid”.
La conferma della partecipazione di carabinieri di Brescia e Verona alle trame nere arriva da un altro neofascista, Giampaolo Stimamiglio: “Vi specifico che i Carabinieri di Parona già negli anni Settanta avevano avuto rapporti con la Legione di Spiazzi poiché nel loro territorio c’era un deposito di armi clandestino a cui avremmo potuto appoggiarci noi, e forse anche altre realtà, la cui ubicazione era nota appunto ai Carabinieri di Parona”. Il “deposito di armi clandestino” era quello che dopo il 1990 si scoprirà essere un “Nasco” (nascondiglio) di Gladio, a disposizione dell’organizzazione segreta Stay Behind. Il citato Amos Spiazzi è l’ufficiale dell’Esercito che fu indagato per la sua partecipazione alle operazioni eversive della “Rosa dei venti”.
Nella caserma di Parona – almeno secondo i racconti della testimone – si pianifica un attentato presso un locale notturno di Brescia, il Blue Note. Racconta la ragazza: “Io due-tre mesi prima della morte del Silvio… seppi dallo stesso Silvio che al Blue Note avrebbe dovuto essere messa una bomba e che proprio lui avrebbe dovuto collocare l’ordigno. Il Blue Note era un locale frequentato da gay e da prostitute e magnaccia. Io non posso ricordare i discorsi di 40 anni fa, ma il Silvio dava una spiegazione politica. Cioè questo attentato avrebbe aiutato la destra, o meglio, avrebbe aiutato a far venire in Italia un regime militare. Più volte avemmo occasione di parlare di questo attentato nei mesi che precedettero la sua morte. Egli mi precisò che agiva per i Carabinieri ed erano i Carabinieri che volevano questo attentato, ma egli era del tutto d’accordo. Lui aveva intensi rapporti con il capitano Delfino”.
Poi la strage viene realizzata in piazza della Loggia. Obiettivo designato: i poliziotti che di norma stazionavano proprio nel luogo dove fu posta l’ordigno. Ne è convinta la vedova del vicequestore Francesco Lamanna, allora vicecapo dell’Ufficio politico della Questura di Brescia. Racconta agli investigatori l’odio del marito per Delfino: era convinto di essersi salvato per miracolo dalla strage: “Ricordo che mi disse di essersi salvato perché aveva iniziato a piovere e aveva voluto spostarsi con i suoi per lasciare spazio alla gente per ripararsi”, mette a verbale la moglie. “Era convinto che la bomba fosse stata contro di loro… Il trauma fu così forte che mio marito non parlò a casa per alcuni mesi e non ha più voluto attraversare la Piazza. Quando eravamo insieme a passeggiare dovevamo fare il giro, non c’era verso, di lì non voleva transitare”.
Dopo l’esplosione
La fidanzata di Silvio Ferrari racconta di aver accompagnato il suo ragazzo anche in due luoghi molto delicati: la sede del Centro Sid di Verona, in via Montanari 14; e Palazzo Carli, in via Roma 31, sede del comando Nato della Ftase (Forze Terrestri Alleate per il Sud Europa) di Verona. Silvio faceva il bombarolo, ma contemporaneamente era informatore (pagato) dei carabinieri e dei servizi segreti, che la testimone chiama “quelli del partito di Parona”, e anche della polizia, “quelli del partito avverso”, in competizione con i carabinieri.
Dopo la morte del fidanzato, la ragazza promette di tenere la bocca chiusa. Terrorizzata, giura che non avrebbe mai detto a nessuno di aver incontrato, “insieme al Silvio”, anche alcuni carabinieri. Lo deve garantire di persona a tre ufficiali dell’Arma: al capitano Delfino; al tenente colonnello Pignatelli del Sid di Verona; e a un terzo uomo. Chi è? È l’allora capitano Mario Mori (non indagato), che molti anni dopo sarà uno dei protagonisti della trattativa Stato-mafia. In quel momento era in servizio al Sid. Mori, insieme al capitano Delfino, va di persona, nell’estate 1974, a incontrare la ragazza in quel momento reclusa nel carcere di Venezia. La giovane, impaurita, gli assicura che starà zitta.
Che cosa c’entra Mori con questa storia nera? Dopo la strage, l’ufficiale riceve dal suo superiore al Sid, Federico Marzollo, capo del Raggruppamento Centri Cs (controspionaggio) di Roma, l’incarico di coordinare l’attività informativa sulla strage di Brescia. Un incarico fuori da ogni regola, fa notare agli investigatori l’allora suo diretto superiore al Sid, il maggiore Mario Venturi: perché il Centro Cs di Roma non aveva alcuna competenza sulla Lombardia.
Nel 1975 avviene una svolta: al Sid finisce l’era di Vito Miceli, uomo della P2 di Licio Gelli, in contrasto con il capo dell’Ufficio D del servizio, Gianadelio Maletti, che apre un’indagine interna sul gruppo di ufficiali fedelissimi a Miceli, coinvolti tra il 1970 e il 1973 nelle operazioni eversive dei neofascisti, dal tentato golpe Borghese alla Rosa dei Venti, e alle successive stragi. Al termine dell’indagine, Mori e Marzollo sono allontanati dal Sid e rimandati all’Arma.
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