Alberto Nobili “il leggendario”, il pm che sfidò i boss di Milano
Chi dice che i magistrati sono uomini di potere è smentito dalla vita di almeno uno di loro: Alberto Nobili, detto “il leggendario”. Ieri ha festeggiato il suo settantesimo compleanno e oggi deve lasciare la Procura di Milano, dove è stato per 42 anni sostituto procuratore e procuratore aggiunto, arrivando a un soffio dal diventare procuratore, battuto forse proprio per mancanza di relazioni di potere e di corrente.
Lui ha sempre fatto il magistrato amando più le indagini che le scrivanie, andando di persona sui luoghi del delitto, con aria sorniona e spavalda, un guascone la cui storia meriterebbe più d’una miniserie Netflix. Riflessivo, però, quando accettava gli inviti di scuole e associazioni per parlare di legalità e “d’infiltrazioni” mafiose al Nord, diventate ormai salde e consolidate occupazioni di territori e d’affari.
Ne ha viste tante, nella sua carriera di pm d’azione. Come in un film, si è chiuso in banca con l’uomo armato che teneva in ostaggio quattro persone e chiedeva un riscatto di 10 miliardi. Si è rinchiuso nel carcere di San Vittore per parlare con i detenuti in rivolta contro le restrizioni causate dalla pandemia. Ha convinto un ragazzo a non buttarsi dall’impalcatura dove era salito fuori dal palazzo di Giustizia milanese.
Il periodo più eroico è stato quello – ormai dimenticato – delle grandi inchieste antimafia a Milano, nei primi anni Novanta, con trenta mega-operazioni, 1.800 arrestati, dieci maxi-processi. Nobili ne ha seguite alcune tra le più pesanti. Avevano nomi esotici come “Hoca tuca” (coinvolti i boss calabresi Francesco Sergi e Saverio Morabito), “Green ice” (indagate la famiglia di ’ndrangheta dei Piromalli e i corleonesi di Cosa nostra), “Terra bruciata” (con 125 tra arrestati e indagati nei quartieri di Quarto Oggiaro, Baggio e piazza Prealpi). E la più clamorosa di tutte, la “Nord-Sud”, che tra Corsico, Buccinasco e Cesano Boscone ha coinvolto 221 persone, nomi pesanti della ’ndrangheta (i Sergi, i Papalia, i Barbaro) e di Cosa nostra (i Carollo, i Ciulla).
Fu costretto a girare con la scorta armata, come altri suoi colleghi in quegli anni a Milano. I calabresi avevano già organizzato una bella festa tutta per lui. Ma il momento in cui non riuscì a nascondere del tutto la preoccupazione fu un altro: quando annusò manovre di apparati attorno al suo lavoro. Con i boss la guerra era dichiarata, quello che davvero temeva era il “fuoco amico”. Un mitico collaboratore di giustizia, Saverio Morabito, gli aveva raccontato, tra l’altro, gli strani metodi investigativi di un generale dei carabinieri passato dai servizi segreti, Francesco Delfino. E poi erano arrivati i dossier del Gico di Firenze con accuse infamanti (e false) di collusioni per lui e i suoi colleghi Armando Spataro e Maurizio Romanelli.
Durante la stagione dei sequestri di persona, seguì le indagini per liberare Alessandra Sgarella, rapita a Milano nel 1997 e imprigionata per nove mesi in Aspromonte. Fu lui a chiedere l’arresto di sette sospettati, decidendo di farlo a rapimento ancora in corso. Quando ha dovuto lasciare l’antimafia, ha coordinato il pool sulla criminalità comune, ha risolto il caso di Lea Garofalo, la collaboratrice di giustizia sciolta nell’acido dalla sua famiglia, e della “coppia diabolica”, che l’acido lo usava per sfregiare le vittime prescelte.
È stato anche coordinatore del pool antiterrorismo, nel momento degli attacchi dei gruppi islamisti, e si è occupato del rientro in Italia del terrorista nostrano Cesare Battisti. Ieri ha salutato tutti al palazzo di Giustizia con l’aria di chi non ha alcuna voglia di andare ai giardinetti. La Procura di Milano oggi è ben diversa da quella in cui ha lavorato per 42 anni, sta cercando di guarire dalle ferite del caso dei verbali di Amara, e tanti giovani pm forse neppure sanno la storia e le storie di Alberto, “il leggendario”.