Pietro Grasso, dai contrasti con Renzi all’esclusione dalla politica
Ha avuto due vite. Pietro Grasso è stato per molti anni magistrato. Sostituto procuratore della Repubblica a Palermo, ha indagato, tra l’altro, sull’omicidio del presidente della Regione Sicilia Piersanti Mattarella ucciso il giorno dell’Epifania del 1980; è stato giudice a latere al maxiprocesso a Cosa nostra nato dalle indagini di Giovanni Falcone che ha giudicato 475 affiliati a Cosa nostra; è stato procuratore di Palermo e ha lavorato alla Direzione nazionale antimafia, prima come procuratore aggiunto e poi come procuratore antimafia, negli anni cruciali delle indagini sulle stragi del 1992 e 1993.
La sua seconda vita inizia nel 2013, quando si dimette dalla magistratura e si candida al Senato nelle liste del Partito democratico. Diventa senatore, poi presidente del Senato, per un periodo anche presidente della Repubblica supplente, dopo le dimissioni di Giorgio Napolitano. Ha animato il dibattito a sinistra, contribuendo a fondare Liberi e uguali (Leu). Alla tornata elettorale per il voto del 25 settembre non ha partecipato: il segretario del Pd Enrico Letta non gli ha chiesto di ricandidarsi, in una campagna elettorale in cui i temi della legalità e del contrasto alla mafia sono quasi del tutto assenti. In questa intervista accetta di stilare un consuntivo della sua esperienza politica e istituzionale.
L’ultima campagna elettorale quale attenzione ha concesso ai temi della legalità e dell’impegno antimafia?
Nessuna. Al di là della candidatura di due importanti ex magistrati da parte del M5s, anche dal Movimento oltre che da tutti gli altri partiti per ora si sente solo un assordante silenzio. Il tema è da tempo fuori dall’agenda, anche mediatica. Anche allargando alla giustizia in generale, tutti stanno sottovalutando la mancanza di giudici, che rischia di paralizzare una macchina già in difficoltà. Sul tema le uniche proposte sono quelle della destra contro le toghe: si rilancia una legge già dichiarata incostituzionale come la legge Pecorella, che impedisce l’appello per chi è dichiarato innocente in primo grado, e si torna alla carica con la separazione delle carriere.
La mafia non è un problema da affrontare, per la politica.
Per ingenuità o interesse si sente dire che la mafia, visto che non spara quasi più, è stata vinta. Già in passato ho lanciato l’allarme che la mafia è invisibile, perché mette di nuovo al centro dei propri interessi i rapporti con la politica, con l’economia, con le istituzioni. Il ritorno nella politica attiva di personaggi condannati per mafia è una sfida a viso aperto alla giustizia: si lascia intendere che si torna a garantire quel sistema clientelare di cui la mafia è un ineludibile pilastro.
Ora arrivano anche i soldi del Pnrr.
E pensiamo a quanto alto possa essere l’interesse della criminalità sulle centinaia di miliardi di euro del Pnrr. Dobbiamo difendere queste risorse dalle mafie: ne va del futuro del nostro Paese. Il punto è unire valori a interessi, unire la lotta alla mafia a un progetto di sviluppo economico, rafforzando l’economia legale. La giustizia sociale è la premessa e insieme la conseguenza di un efficace contrasto alla criminalità.
Come giudica la qualità dei candidati dei partiti italiani e, più in generale, di coloro che fanno politica?
In passato si arrivava alla politica dopo lunga militanza e anni di rappresentanza locale. Oggi il salto è immediato e, con l’eccezione di chi è portatore di esperienze importanti in altri campi, chi sale in politica è spesso privo di qualsiasi precedente esperienza. D’altronde dal Porcellum in poi gli elettori possono scegliere solo un simbolo, e questo consente ai leader di avere le mani libere: si son infatti guardati bene dal cambiare la legge elettorale come invece si erano impegnati prima dello sciagurato taglio dei parlamentari.
Non c’è stata una sua ricandidatura. Perché?
Rispondo rifuggendo da qualsiasi intento polemico. Dopo lo strappo del novembre 2017 dal Pd di Matteo Renzi, in occasione dei cinque voti di fiducia sul Rosatellum, presi atto che il Pd era “irriconoscibile per merito, metodo, stile”. Mi ero poi riavvicinato al Pd di Letta partecipando e organizzando delle Agorà sulla giustizia. La mia disponibilità a proseguire quel lavoro era nota, ma evidentemente la contrazione dei parlamentari, i problemi tra le correnti e la strategia delle alleanze hanno reso complicata la mia candidatura. Mi preme però che i temi di cui sono stato portatore in questi anni non spariscano dall’agenda di centrosinistra.
Gli ultimi anni sono stati per lei anche di impegno politico a sinistra, con Leu. Com’è far politica a sinistra in questo Paese?
Leu è nata dalla consapevolezza che, dopo l’appoggio al governo Monti e la segreteria di Renzi, si dovesse riparare ai tanti strappi fra la sinistra e interi settori della società. Purtroppo Leu non è riuscito a rappresentare fino in fondo un elemento di rottura e di alternativa. Ma credo che quelle ragioni siano ancora tutte attuali: è indispensabile un rinnovamento di idee, di cultura politica e di volti. Ho sperato dopo le elezioni del 2018 che si facesse avanti qualche giovane militante a sfidare, senza chiedere permesso, la classe dirigente delle forze che avevano dato vita a Leu. Invece ciascuno si è di nuovo chiuso nel suo orticello in attesa di trovare il modo di tornare in Parlamento. Mi dispiace davvero per tutte quelle persone che hanno creduto, come me, a quel progetto.
Com’è la sinistra in Italia, qual è il suo stato di salute oggi?
La sinistra oggi è quella che vive sui territori e nei luoghi di lotta e cultura animata da studenti, giovani precari, associazioni locali, lavoratori e disoccupati che non si arrendono. Manca un soggetto politico che rappresenti un progetto di cambiamento, soprattutto per i più giovani, che non sono affatto distratti sui temi sociali ma non si riconoscono in questi partiti e temo si rifugeranno nell’astensione. Ma le idee di equità, centralità del ruolo dello Stato, impegno civile attivo, ecologismo, femminismo, lotta a ogni forma di discriminazione, solidarietà, sono tutt’altro che minoritarie nella società.
Che rapporti ci sono tra i gruppi di sinistra e il partito maggiore, il Pd?
Alleanze o fratture, composizioni o scontri non sono state concepite sulla base dei contenuti o sull’idea dell’Italia del futuro ma su basi personali, vecchi o nuovi rancori, calcoli strumentali: un passaggio davvero triste. Forse è mancato il tempo, qualcosa di buono stava iniziando a muoversi, ma è saltato tutto. Sarebbe stato necessario far convergere, anche in funzione dell’attuale legge elettorale, in un unico soggetto le molte pressanti istanze della società: insegnanti, personale medico e sanitario, braccianti del meridione (che dimostrano come diritti umani e dei lavoratori devono camminare insieme), ambientalisti, amministratori locali, lavoratori della gig-economy, precari intellettuali, le partite Iva che svolgono a tutti gli effetti lavoro dipendente. Ci sarebbe bisogno di una nuova classe dirigente, formata nei conflitti, nelle culture e nelle contraddizioni del mondo attuale e invece affronteremo sparpagliati le elezioni, facendo la fortuna della destra, capace di mettere da parte le pur vistose contraddizioni pur di andare al governo.
I Cinquestelle sono alleati, concorrenti, avversari?
Capisco, avendola provata, la difficoltà di passare da un ruolo istituzionale a un ruolo prettamente politico. Penso che Giuseppe Conte sia stato un buon premier durante la pandemia, ma negli ultimi mesi ha inanellato errori che hanno reso difficile quell’unione che stava maturando. Con le sue azioni ha invece offerto alla destra l’occasione per far cadere il governo Draghi e partire in clamoroso vantaggio per le elezioni. Un’occasione persa per tutti, non solo per i 5 Stelle.
Giorgia Meloni è un rischio per il Paese?
La passata debolezza della sinistra, le sue posizioni ondivaghe, hanno purtroppo prodotto nel Paese una risposta di destra, che è riuscita a incanalare la rabbia sociale originata dai guasti della globalizzazione e dalle maggiori diseguaglianze. Con Meloni c’è il fondato rischio che si inaspriscano le tensioni sociali per coprire le difficoltà economiche, come successe con Matteo Salvini al Viminale. Il modello di società che portano avanti è il contrario di ciò per cui noi ci battiamo: cooperazione invece di competizione, solidarietà invece di esclusione, progressività invece di flat tax, beni comuni invece di privatizzazione, un salario dignitoso, una crescita equa e sostenibile, riorganizzazione del settore energetico in modo da fermare il cambiamento climatico.
Com’è stata la sua esperienza di presidente del Senato, seconda carica dello Stato?
Nel mio primo giorno da senatore ho presentato un disegno di legge su corruzione, autoriciclaggio, voto di scambio, falso in bilancio, per cercare di rimediare ai guasti delle precedenti legislature. Il secondo giorno sono stato eletto Presidente del Senato, un ruolo istituzionale, sopra le parti, in linea con l’autonomia e l’indipendenza della mia precedente professione. È stata una entusiasmate esperienza, superata credo dignitosamente anche grazie all’aiuto onnipresente e incondizionato dell’amministrazione del Senato, dal segretario generale sino all’ultimo dei dipendenti.
Non ha avuto un grande feeling con Matteo Renzi.
Ho vissuto momenti di tensione quando la mia imparzialità è stata vissuta come un’offesa da Renzi presidente del Consiglio, con i quali gli scontri erano continui. Fra le tante iniziative adottate mi piace ricordare la revoca dei vitalizi ai parlamentari condannati, la prima applicazione della legge Severino (con la decadenza da senatore di Silvio Berlusconi, ndr) e la riforma del regolamento del Senato.
Lei è stato anche presidente della Repubblica supplente, dopo le dimissioni di Giorgio Napolitano.
È stato un grande onore ricoprire la carica di presidente della Repubblica, che, seppur da supplente, ho esercitato nella pienezza delle funzioni: firmando o rifiutando, sotto il profilo della non stretta aderenza ai principi costituzionali, decreti legge proposti dal governo Renzi. La telefonata più tesa con lui fu proprio in quel periodo, una rottura pressoché insanabile. Ricordo con gioia gli attestati di cittadinanza italiana firmati: immaginavo l’orgoglio per chi diventava cittadino italiano a tutti gli effetti, e insieme la rabbia per un percorso così lento e ingiusto per tanti ragazzi e ragazzi che ancora attendono una buona legge. Il momento più emozionante è stato il passaggio di consegne al presidente Mattarella al Quirinale. Nel mio breve discorso ho ricordato quel momento drammatico dell’Epifania del 1980, in cui c’eravamo conosciuti in occasione della morte del fratello Piersanti: lui giovane professore universitario, io un ancor più giovane magistrato incaricato delle prime indagini. Neanche la più fervida fantasia di uno sceneggiatore avrebbe mai potuto immaginare quell’incontro 35 anni dopo in uno scenario così solenne.
Ha mai rimpianto, da politico, gli anni in cui era magistrato?
Non ho né rimorsi né rimpianti, ma una differenza l’ho sentita: avendo diretto uffici delicati come la Procura di Palermo o la Procura nazionale antimafia, avevo la titolarità, onore e oneri, di ogni mia decisione. Analisi, azione, risultati dipendevano in gran parte da me. In politica invece tutto è lento, fumoso, a volte impercettibile. Si passano giorni a trovare una mediazione e poi basta niente per farla saltare. Gli accordi sono sempre scritti sull’acqua.
Com’è stato sapere che Cosa nostra, nel 1992, aveva l’esplosivo pronto per lei?
Ho potuto comprendere meglio e condividere quanto aveva provato Paolo Borsellino quando, dopo Capaci, seppe che era arrivato l’esplosivo anche per lui. I tanti momenti in cui la vita mia e dei miei familiari è stata in pericolo mi aiutano a dare una risposta a coloro che cinicamente mi chiedono come mai io sono sopravvissuto: “per coincidenze fortuite”. Nel contempo i ricordi mi aiutano a lenire la sindrome del sopravvissuto, quel senso di colpa di chi ha visto uccidere gli amici che gli stavano accanto in trincea. E alla fine ho trovato una risposta a questo dramma interiore: la certezza che nonostante la piena consapevolezza dei rischi che correvamo, degli interessi che stavamo toccando, non ci saremmo mai tirati indietro.
Ricorda il Marcello Dell’Utri dei tempi della Bacigalupo calcio?
Sono entrato nella Bacigalupo nel 1958 a 13 anni e Dell’Utri era, con i suoi 17 anni, il mio allenatore. I calciatori provenivano quasi tutti da due scuole cattoliche, quella dei Salesiani del Don Bosco, che io allora frequentavo, e quella dei Gesuiti del Gonzaga. Nel corso di un’udienza nel processo a suo carico, mentre io ero procuratore a Palermo, Dell’Utri dichiarò che dal campo uscivo sempre coi pantaloncini senza ombra di fango. Giudizio ingeneroso perché invece correvo senza risparmio. Dopo due anni su consiglio di mio padre che mi vedeva trascurare gli studi e di mia madre che effettivamente mi diceva di stare attento al fango perché una volta addosso è difficile da mandar via, decisi di abbandonare la Bacigalupo e da allora, era il 1960, non ho più incontrato Dell’Utri.
Ricorda i colloqui investigativi che da procuratore antimafia fece con il collaboratore di giustizia Gioacchino Pennino sul ruolo di Berlusconi nella stagione delle stragi ’92-’93, oggi riproposto da altri boss, Gaspare Spatuzza e Giuseppe Graviano?
Certamente. Nessuno potrà mai negare – al di là qualsiasi prova giudiziaria mai raggiunta sulla partecipazione nella fase di ideazione delle stragi 92-93 – il ruolo di Berlusconi quale “utilizzatore finale”. Il cammino verso la verità è lungo e irto di ostacoli. Ho avuto il privilegio di avere per primo raccolto altri brandelli di verità da Spatuzza, che ha smascherato il più grande depistaggio della storia, quello sull’attentato a Paolo Borsellino, e Graviano, che ha offerto ulteriori elementi che hanno più il sapore di una trattativa ricattatoria a distanza. Ma io non abbandonerò mai fino al mio ultimo istante di vita la ricerca della verità. L’ho giurato dinanzi alle bare dei miei amici e colleghi Giovanni e Paolo e ciò serve a dare anche un senso a essere a loro sopravvissuto.