Eni, il “complotto” lo ha inventato Amara, Descalzi beneficiario a sua insaputa
di Gianni Barbacetto e Antonio Massari /
Finalmente chiusa la lunghissima e contorta indagine sul cosiddetto “complotto” in cui è stata coinvolta Eni a partire dall’estate 2014, quando un avvocato che allora lavorava, molto ben pagato, per la compagnia petrolifera, Piero Amara, fa depositare alla Procura di Trani un primo esposto contenente un mazzo di false accuse. Ne seguiranno altri, anonimi e farlocchi, a Trani e poi alla Procura di Siracusa.
Infine è la Procura di Milano a ereditare il fascicolo e a dipanare l’intrico di accuse, calunnie, veleni e verità, giungendo oggi a indicare come responsabili del “complotto” l’avvocato Amara, spalleggiato dai sodali Giuseppe Calafiore e Vincenzo Armanna, con alcune sponde dentro Eni: Massimo Mantovani, Vincenzo Larocca e Michele Bianco, dell’ufficio legale della compagnia, insieme ad Antonio Vella e Alessandro Des Dorides, ex manager di vertice. Tutti (tranne Bianco) già licenziati da Eni.
Scomparsi invece dall’indagine Claudio Descalzi, l’amministratore delegato – beneficiario a sua insaputa delle manovre di Amara – e il suo braccio destro Claudio Granata. Erano loro due che Amara – dopo essere stato arrestato per altre vicende e dopo aver deciso di collaborare con i magistrati – aveva indicato come i mandanti del “complotto”, finalizzato a suo dire ad azzerare le indagini della Procura di Milano sugli affari di Eni in Algeria e in Nigeria (poi sfociati in processi finiti con assoluzioni per tutti); a far finire sotto procedimento disciplinare Fabio De Pasquale, il pm che indagava sulle (presunte) corruzioni internazionali della compagnia; a infangare i “nemici” di Descalzi interni al consiglio d’amministrazione di Eni, i consiglieri indipendenti Luigi Zingales e Karina Litvack, che chiedevano chiarezza sulle operazioni dell’azienda in Africa; e ad accusare di infedele patrocinio l’avvocato Luca Santa Maria.
A leggere le 13 pagine dell’avviso di conclusione indagini, si capisce come Amara (poi diventato famoso per i suoi verbali segreti sulla presunta loggia Ungheria che hanno spaccato la Procura di Milano) non sia stato creduto, quando diceva che il “complotto” lo aveva organizzato su mandato di Granata per difendere Descalzi. Alle sue affermazioni non sono stati trovati riscontri. Tanto più nel clima avvelenato degli ultimi mesi, in cui la Procura di Milano è stata divisa dai dissidi interni ed è diventata oggetto di una serie di inchieste della Procura di Brescia che di fatto si sta occupando – evento inedito – delle scelte investigative compiute nelle indagini su Eni dai pm milanesi (Laura Pedio, Paolo Storari, Fabio De Pasquale, Sergio Spadaro, Francesco Greco).
Dunque – conclude ora la Procura di Milano – Amara ha fatto tutto da solo, giocando di sponda con manager Eni con cui era in affari. Dirigenti infedeli, poi espulsi – tranne Bianco – dalla compagnia (benché con condizioni di favore, nel caso di Vella). Nessun mandato dal numero uno di Eni, Descalzi, secondo quanto raccolto dalla Procura in una lunghissima inchiesta condotta prima dal procuratore aggiunto Laura Pedio e dal sostituto Paolo Storari e poi conclusa da Pedio insieme all’aggiunto Stefano Civardi e al sostituto Monia Di Marco.
Amara e Armanna hanno semmai incassato un sacco di soldi, realizzando operazioni commerciali e di trading petrolifero con società del gruppo Eni come Ets (allora guidata da Des Dorides), in contatto con Napag (dell’imprenditore Francesco Mazzagatti e del manager Giuseppe Cambareri) e con la nigeriana Oando (di Boyo Omamofe). Amara non è stato evidentemente creduto neppure quando diceva che era stato Granata a intervenire direttamente per far accreditare Napag presso Versalis (società allora del gruppo Eni), con cui Amara ha fatto grossi affari attraverso Napag.
Spezzata la catena di comando che portava su su, a Granata e Descalzi, restano in gioco solo Vella, Mantovani, Bianco e Larocca, a gestire i procedimenti farlocchi creati a Trani e Siracusa e ad associarsi “fra di loro allo scopo di commettere più delitti di calunnia, diffamazione, intralcio alla giustizia, induzione a non rendere dichiarazioni o a rendere dichiarazioni mendaci all’Autorità giudiziaria, false dichiarazioni al pubblico ministero, favoreggiamento, corruzione tra privati”.
Sono loro e solo loro a “inquinare lo svolgimento dei procedimenti in corso avanti all’Autorità giudiziaria milanese nei confronti di Eni e di suoi dirigenti e apicali per fatti di corruzione internazionale relativi ad attività economiche in Algeria e Nigeria”. Loro e solo loro a screditare “i consiglieri indipendenti di Eni, Zingales e Litvack”; a concordare “le propalazioni dell’avvocato Piero Amara, dell’avvocato Giuseppe Calafiore e dell’ex dirigente Eni Vincenzo Armanna, di modo da annullare l’apporto probatorio dichiarativo nel procedimento Eni Nigeria”; a calunniare Descalzi e Granata indicandoli come “responsabili del mutamento delle dichiarazioni di Armanna Vincenzo nel corso del processo Eni Nigeria”.
Ora le 17 persone ed enti sottoposte a indagini hanno 20 giorni per presentare memorie, produrre documenti, rilasciare dichiarazioni, chiedere nuovi atti di indagine. Poi la Procura chiederà il rinvio a giudizio. E sarà il giudice dell’udienza preliminare a decidere chi, infine, andrà a processo.